La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

giovedì 26 maggio 2011

Per un'archeologa che si sposa (Maila d'inverno, Maila d'estate)




Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet.
Et recentibus virentes ducat umbras floribus.
Cras erit quom primus primus Aether copulavit nuptias,
Ut pater totis crearet vernis annum nubibus:
In sinum maritus imber fluxit almae coniugis,
Unde fetus mixtus omnis omnis aleret magno corpore.
Ipsa venas atque mente permeanti spiritu
Intus occultis gubernat procreatrix viribus,
Perque coelum perque terras perque pontum subditum
Pervium sui tenorem seminali tramite
Inbuit iussitque mundum nosse nascendi vias.

E dunque non solo commemorazioni, in memoriam, ecc. ecc. Maila si sposa, benedetta da Dio e dagli uomini, e i colori che la esaltano nel fervore estivo dei forni perduti dell'Officina del Gas, sui muri di pietra e calcina del secolo XI della moneta di Lucca, zecca perduta forse ritrovata, domani saranno uno.
Dieci anni ed oltre di fatiche condivise, a Lucca e nel territorio, dapprima a cercare con amici segni della storia nelle piane dell'Auser, poi nel rigore dello scavo, sempre professionale, sempre pronta all'esercizio della ragion critica, dovunque e con chiunque.
Forse le parole del Pervigilium Veneris non sono le più adatte ai giorni nostri, ad altri usi nuziali avvezzi; ma la forza vitale della natura, che alimenta anche i segni della storia che Maila ha lucidato infinite volte, è lì, suoni turbinanti che si intrecciano alle immagini dionisiache dei sarcofagi del II e III secolo, al ricorso della vita nei sarcofagi con stagioni. E l'Archeologo Zio non conosce niente di più sonoro, da dedicare a Maila, al sole e nell'ombra, per il giorno delle nozze.

giovedì 19 maggio 2011

Forni per focacce e porchetta d'Etruria, rivisitando il Priapo di Marti


Travolto dalla birra dei Liguri, rossa di Padania o bianca, e scoperto il giorno dopo che (forse) anche gli Etruschi pisani distillavano alica da bere in poculi nati per imprigionare schiume gorgoglianti, l'archeologo che su antiche fotocopie ritrova i disegni del Conestabile ritorna ad inseguire su per la collina – con il rimpianto di aver poco apprezzato la bionda figlia della spelta di Pisa – l'antico Priapo di Marti, enigma che affonda nei sogni dell'ermeneutica.
E dunque i falli visti o sognati dal Conestabile sul forno a legna di Orvieto, posti a Tutela delle Pizze e del Fuoco benevolo generatore di spiedini e spiedoni, esiziale, se non infrenato dal Doppio Fallo, ai palazzi dei signorotti tra Albegna e Tevere, divengono plastici sogni da sovrapporre, opportunamente ruotandoli con i giochini delle immagini, alla trilobata pietra generata dalla Terra fra Chiecina e Ricavo, dove gli Etruschi bevevan birra e anche vino.
Sogni di birra, sogni di vino, o illuminazioni di un Dioniso rurale, che s'inebriava anche di birra, e di un Priapo segnato da mani etrusche, nella Collina Sospesa fra i Due Fiumi, benevolo amico di feste rurali con focacce e porchetta.

mercoledì 18 maggio 2011

La O di Paolo & Silvio (ovvero: lo scavo infinito della Rocca Tonda delle Verrucole)




Quindici anni o forse più (o pochi di meno) per vedere il sottile tratto del Pasi trasformarsi in segno di pietra fissato sulla scheggia di pietra delle Verrucole, la doppia punta volta alle Panie, e dieci per fare dei segmenti sottili scavati da Paolo una tondissima O, il Tondo della Rocca Tonda.
S'innerva sulla pietra il tessuto di ciottoli e malta voluto dagli architetti venuti di Lombardia per segnare del segno dei Duchi di Ferrara (e di Modena) la valle amica, via impervia verso una Toscana remota, e svetta al cielo sulle immagini della Rocca Tonda sul Mare di Rodi, e delle Rocca Tonda di Schifanoia.
Un Rinascimento in Giallo e Verde, come le dame che facevan compagnia alle castellane sulle scodelle di Ferrara, mentre volavan le note di Josquin Desprez e i versi di antiche storie di Orlando, pronte ad essere riversate nel suono dell'Ariosto.
Pietre bianche sul biancore della pietra, in un giorno di maggio del 2011, che cantano le impreese degli archeologi, e la malinconia di anni perduti.

sabato 14 maggio 2011

La Valdera da Pietra Cassa, in un mattino di quasi estate




Non è scomodo arrivare in Panda, a Pietra Cassa, per mirare le operose fatiche di chi tenta di sottrarre la Rocca Signora di Sterza ed Era all'ineludibile morso del tempo. Rifar cortine, spolpate dalla fame di pietra, recuperar cisterne, saldare sfatte masse cementizie, sfinite dal verde e dal cielo: nobile e garbato impegno dell'architetto maestro di rocche rinnovellate, di muratori capaci di affrontar salite fra cinghiali e forre, pantani d'inverno e saldati dalle acque trattenute al primo sole d'estate.
Veder Valdera e il correre delle sempre più misere acque dello Sterza, braided river dei poveri, dall'alto, con gli occhi di Pisani e Gaetani, dopo quelli dei Cadolingi, sullo sfondo della torre angolare che cita il castello di Bientina, all'altro spigolo della terra della repubblica ghibellina, mentre la torre eptagona, che dichiara gli anni di Biduino e delle imprese di Oltremare, le mode dei signori di Versilia e dei Lucchesi, e di altri infiniti pronti ad affrontar trabucchi, ingabbiata nell'attesa della rinascita sfugge all'occhio che cerca piuttosto, fra fiori baciati dall'alto sole che illumina Volterra, i meandri dell'Arno, persi nel torpore quasi estivo della nebbia del mattino.
Attende l'archeologo innamorato, Pietra Cassa, che fu rocca per qualche anno, adattata a qualche spingarda, ma era nata per il sibilo della balestra e per le guaite dei contadini di Lajatico e Orciatico, che ora ne sono signori, e dominano la loro terra. Purché si marci per quattro chilometri in forre selvagge di cinghiali, perché non sempre c'è la Panda pronta a navigare nel verde.

lunedì 9 maggio 2011

Dalla Croce del Vescovo alla Croce del Guerriero. La Città di San Frediano



Ottanta pagine, cento figure, colori e colori, partendo dalla Croce del Vescovo e finendo con la Croce del Guerriero, passando per le infinite Croci dei mancipia di Ranilo, sublimis femina del 553. Da leggere sul web.

La Premessa di Giulio Ciampoltrini

Da quasi trent’anni l’archeologia di tutela ha concesso occasioni di viaggiare nella storia sepolta di Lucca. Dai rilevamenti stratigrafici nelle trincee per la posa di condutture di servizi, nei primi anni Ottanta del Novecento, fino agli scavi estensivi e preliminari alla realizzazione di opere pubbliche, nel decennio successivo, lungo, lunghissimo è stato il percorso iniziato con il salvataggio concitato di materiali quasi sul punto di partire per la discarica, per giungere ai cantieri in cui una generazione di archeologi nata quasi negli stessi anni in cui venivano disposti i primi provvedimenti di tutela, offre prove esemplari di un metodo di scavo progressivamente affinato per combinare qualità scientifica ed efficienza.
La città – come anche il territorio – non ha esaurito la capacità di raccontare storie, svelare aspetti talora inattesi. L’età romana, il Medioevo, il Rinascimento si sono progressivamente manifestati anche con le tracce lasciate nel suolo, a commentare intrecci e stratificazioni di strutture sulle quali si è modulato un paesaggio urbano in continua trasformazione; ma ancora dopo più di venti anni di ricerche sistematiche rimaneva in ombra il cruciale momento di passaggio fra mondo antico e Alto Medioevo, gli ‘anni di San Frediano’, per Lucca che dalla protezione del santo vescovo celebrato da Gregorio Magno, con le reliquie venerate nella chiesa extraurbana che da lui prenderà nome, e dal suo ruolo strategico su un asse viario divenuto fondamentale, trasse per tutto l’Alto Medioevo occasioni di affermazione non solo nell’ambito regionale.
Finalmente si è offerta l’occasione per cogliere i punti di riferimento essenziali per assicurare la concretezza del dato cronologico alle evanescenti testimonianze del VI e VII secolo che più volte si erano proposte, con lo scavo di Via San Giorgio condotto agli inizi del 2010. Non certo la ‘luce sui secoli bui’ che verrebbe da evocare, ma una coerente testimonianza dei tipi ceramici circolanti a Lucca in questi decenni, prezioso punto di riferimento per contesti di regola assai poveri, dai contorni ancor più sfuggenti per la consistenza dei residui della città romana, da un lato, dall’altro per la consunzione cui raramente erano sfuggiti nell’Alto Medioevo – a partire dal vitale secolo VIII e poi nella impetuosa ripresa della città marchionale, pre- e protocomunale, intorno al Mille.
La ‘città di San Frediano’ può dunque essere apprezzata non solo nelle poche testimonianze sulla Lucca del VI secolo proposte da papiri ravennati, da Gregorio Magno con la narrazione del miracolo di San Frediano, da Agathias con la minuziosa narrazione dell’assedio del 553. I segni dei vivi, con le ceramiche che finiscono in fosse e discariche, dichiarando che anche Lucca, con la sua classe dirigente integrata dalla aristocrazia longobarda, partecipava alla vitalità dei traffici mediterranei ampiamente documentata dalle fonti, ma oscura nel dato archeologico sino a non molti anni fa; i segni dei morti, con le necropoli che iniziano a disporsi anche entro le mura, in un paesaggio frammentato che comunque, proprio per la presenza di cimiteri intramuranei, spesso riferibili a chiese, anticipa uno degli aspetti qualificanti della città medievale.
Alle testimonianze dei traffici si aggiungono quelle degli artigiani, attivi come nella Lucca del secolo VIII, quando la massa dei documenti conservati nell’Archivio Arcivescovile consente di apprezzare società e paesaggi urbani che non sembrano dissimili da quelli proposti dalla documentazione archeologica per il secolo precedente. L’aristocratico longobardo sepolto davanti alla chiesa di Santa Giulia, carico di oggetti di prestigio prodotti da manifatture di matrice ‘bizantina’ – Romana, come si sarebbe detto allora – prefigura l’aristocrazia di viri magnifici da cui esce, in qualche caso, il dux cittadino – vir gloriosus, per Longobardi e per Romani – così come l’exercitalis sepolto in Via Fillungo, forse sotto la protezione delle reliquie di San Frediano, e i membri della stessa classe i cui resti sono affiorati nella campagna lucchese, dall’Ottocento sino ai giorni nostri, possono essere considerati figure esemplari della ‘classe media’ longobarda che popola e rende vivace la Lucca degli anni di Liutprando e di Astolfo, assieme al clero, ai mercanti, agli artigiani della componente Romana della società cittadina, assimilati nei rituali funebri e nella devozione cattolica già nella seconda metà del VII secolo, come testimonia ancora una volta l’evidenza dello scavo.

Il percorso di ricerca che si conclude con queste pagine iniziava, per chi scrive, quando nel deposito dei materiali di scavo di Santa Reparata gli apparve un frammento di marmo – poco più di una scheggia – con una crux gemmata impressionantemente simile a quella che il Baroni, nel Settecento, aveva disegnato dalla lastra d’altare eretta da Valerianus presbyter, per disposizione dell’episcopus Frygianus. Almeno un’ombra, o un’eco, del ‘segno di San Frediano’, che lo entusiasmò nelle ricerche sulle produzioni scultoree della Toscana del VI secolo, avviate proprio dalla scoperta di quel frammento. In quei giorni stava per lasciare l’amata terra di Castelfranco suo padre; a cento anni dalla nascita, a venti dalla morte, gli piace dedicare questo libretto a lui, che forse lo avrebbe sfogliato volentieri, e a chi ne ha condiviso gli anni più belli.

sabato 7 maggio 2011

La zuppa (degli anni) di San Frediano


Si inseguono da Roma a Lucca, lì del VII, qui con salse d'Africa del pieno VI, i mitici bacini, alvei con labbro rientrante e beccuccio versatoio, ineludibile segno degli anni di San Frediano o poco dopo, per chi a Lucca cerchi nella terra i Segni della Storia, reliquie di un'epoca, accanto alle reliquie del Santo Idraulico.
Stavan per chiamarsi zuppe (forse) le pappe e le minestre scaldate nel calderone martellato dai Romani artigiani di Lucca, nel secolo successivo, reso nei colori vivaci dei pupazzi animati del Pentateuco che  tanto ha girato, per salvarci illusioni policrome dei secoli bui, se non nelle absidi delle chiese.
E poi, sulla tavola, con il mestolo, per esser versate sui metalli rivissuti infinite volte, o nelle ultime scodelle d'Africa, colori vivaci destinati a perdersi nei secoli bui, per rinascere in verde e nero seicento e più anni dopo.
(Gli anni di) San Frediano a tavola, pulmentaria da versare su pane per farlo diventare zuppa, come dicevano o avrebbero detto i nuovi signori d'Italia.

lunedì 2 maggio 2011

La coppa e l'olla: buccheri e impasti in quattro tavole e dieci righe






La coerenza del sistema degli insediamenti della Terra dei Quattro Fiumi d'età arcaica (VI secolo a.C.) è esaltata non solo dalla tipologia delle strutture, e dalla sistematica aderenza a vie d’acqua: le ceramiche rivelano una impressionante identità in tutti gli insediamenti, con un repertorio di manufatti per la mensa, la preparazione e la conservazione di cibi e bevande che tradisce la presenza di un centro manifatturiero egemone, da identificare plausibilmente in Pisa, terminale della rete di vie d’acqua.
Il bucchero nero, fine, seppur destinato progressivamente a divenire grigiastro e dalle pareti più spesse, fornisce tutta la suppellettile per la presentazione del cibo: coppe, di regola con labbro distinto da una carenatura, leggermente rientrante; ollette forse impiegate come poculo (bicchiere); pissidi (contenitori) e relativi coperchi. Sono molto rare le forme chiuse, per la presentazione delle bevande (in primo luogo il vino), mentre non è raro incontrare vasi miniaturistici impiegati per attingere il vino (kyathoi). La decorazione è limitata, nel corso del VI secolo, a stampigliature o cerchietti impressi, isolati o in serie continue.
Un solido impasto bruno-rossastro, caratterizzato dai tipici inclusi lapidei lamellari (microclasti, nella dizione tecnica), fornisce la materia in cui vengono modellate le forme impiegate per la cottura di cibi e per la loro conservazione. Sono olle ovoidi con labbro svasato o bacini caratterizzati da un labbro ingrossato ripiegato all’interno, provvisti o meno di manici, decorati da linee a rilievo o incise; il vario formato tradisce la loro destinazione agli usi del fuoco (i formati più piccoli) o alla conservazione degli alimenti (i formati più grandi).
Sono rare altre forme, come il foculo per la presentazione alla mensa di alimenti, testimoniato dall’insediamento di Fossa Due della Bonifica di Bientina.

Lettori fissi