La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

lunedì 28 febbraio 2011

Il Sacro Selciato degli Etruschi della Murella






Giungono immagini da un inverno che trova, fra le nevi delle due Panie, il sole della primavera. Lontani e vicini amici, Paolo e Silvio, pietra su pietra tracciano rette di pavimenti etruschi degli anni intorno al 500 a.C., quando Porsenna frequentava Cloelia, Muzio Scevola giocava con il fuoco, Atene ritrovava il gusto del sangue dei tiranni e le orge di Armodio e Aristogitone stavano per essere santificate da Kritios e Nesiotes, dopo Antenor. E intanto Dario preparava la flotta e gli opliti affilavano le armi della libertà.
Fra Esarulo e Auser qualche decina (?) di Etruschi venuti da Pisa e da Lucca, a trafficar con quelli di Reggio e Modena, confezionava un rettifilo di ciottoli per scambiar merci con i piedi asciutti, o per seguire il volo degli uccelli, auguracula, templa, chi più ne ha più ne metta, fra solstizi ed equinozi, rare citazioni da dotti del secolo V dell'era volgare.
Ma son tornate le nere folaghe a nuotare nelle acque dell'Auser, lontane dai bianchi o cinerini aironi, e il sole che asciuga la nera terra degli Etruschi, misurata dal filo delle pietre, fa sorridere della dottrina tardiva.

venerdì 25 febbraio 2011

Omaggi alle devote dell'archeologia lucchese: II. La Compagnia delle Sepolture Murate



Premessa

Giulio Ciampoltrini

Quando, nell’estate del 2006, si concluse lo scavo della Chiesa Vecchia di Soiana – il Sant’Andrea demolito dopo il terremoto del 1846 – fu comune e condiviso l’impegno di dar conto rapidamente di tutti i dati che quel caso esemplare di archeologia di tutela aveva messo a disposizione della ricerca. Grazie al prezioso strumento offerto dal Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana era possibile già nell’anno successivo offrirne una sintetica presentazione, ma le prospettive di una sistematica edizione si allontanavano per la consueta difficoltà di procedere agli interventi – soprattutto sugli oggetti devozionali (medaglie, crocifissi) – indispensabili per la corretta valutazione dei materiali restituiti dalle indagini.
L’esplorazione della ‘sepoltura murata’ di San Martino in Colle, nell’anno successivo, ripropose in modo ancor più stringente il problema, rendendo indifferibile la ricerca di canali di finanziamento del restauro. Per una favorevole serie di circostanze, fra 2008 e 2009 fu possibile acquisire la lettura di una parte significativa dei ‘segni della devozione’ che i due scavi avevano aggiunto a quelli, già editi, dalle ricerche negli Orti del San Francesco di Lucca, in Santa Chiara di Castelfranco di Sotto, e agli inediti dai saggi di tutela preventiva condotti nel 2001 nel sepolcreto esterno alla cattedrale di San Martino in Lucca.
Il completamento del restauro è ancora assai lontano, forse destinato a perdersi nelle nebbie degli infiniti problemi che l’archeologia di tutela deve affrontare in uno scenario di risorse decrescenti e talora disperse; tuttavia quel che è stato ottenuto può essere proposto al pubblico dei lettori e – ci si augura – a quello dei visitatori delle mostre nel quadro delle iniziative che Lucca dedica annualmente alle Vie dei Santi, e che trovano nel Museo della Cattedrale il punto di riferimento focale. Sarebbe troppo facile rammentare che i ‘segni della devozione’ sono anche, spesso, segni di pellegrinaggi – reali o dello spirito – ai santuari che fra XVII e XVIII secolo erano punto di riferimento amatissimo della religiosità ‘popolare’, e che dalle ‘sepolture murate’ che si distendevano fra la cattedrale e l’edificio oggi sede del Museo proviene una parte rilevante dei materiali che si mettono a disposizione in questa sede. Ci si augura solo che questo impegno condiviso – apparentemente minimo e marginale per chi si trova a sfogliare il volumetto, in realtà faticosissimo – possa testimoniare che l’archeologia di tutela è anche un prezioso strumento per entrare nella storia delle comunità che ci hanno preceduto su queste terre, affidando alla terra i ‘segni’ della loro vita.

Omaggi alle devote dell'archeologia lucchese: I. La Compagnia delle Mura






La tecnica poligonale
nelle mura della colonia Latina di Lucca.
Nuovi dati di scavo

Giulio Ciampoltrini

Grazie a Livio (XL, 43), Lucca ha una precisa data di nascita: nel 180 a.C., nella fase conclusiva della guerra che da quasi un ventennio vedeva Roma e i suoi socii  impegnati al confine nord-occidentale dell’Italia, fra l’Arno e gli Appennini, contro le tribù liguri apuane, su terre concesse dalla città socia di Pisae fu fondata una colonia di diritto latino destinata a consolidare i successi finalmente conseguiti (anche con la progressiva deportazione degli Apuani) e a fungere da baluardo al piede dell’Appennino, in stringente simmetria con la rete di fondazioni che lungo il pedemonte settentrionale, da Modena a Parma, consolidavano il sistema di controllo del territorio che  Roma stava ripristinando dopo la lunga pausa della guerra annibalica[1].
Data la natura eminentemente strategica della nuova città, collocata nella piana in cui l’Auser si apriva in un ventaglio di bracci, e che venne immediatamente bonificata e centuriata per consentire le assegnazioni coloniali[2], la costruzione delle mura dovette essere il primo impegno dei coloni Latini. Il dato archeologico, in effetti, se segnala la rapidissima colonizzazione del territorio, anche con l’applicazione negli edifici produttivi rurali dello schema planimetrico della domus – caso peraltro non inconsueto nell’Italia tardorepubblicana[3] – rivela che l’area urbana non fu edificata estensivamente che a partire dallo scorcio finale del II secolo a.C., con l’ovvia eccezione delle strutture ‘pubbliche’, e – appunto – delle mura[4]; d’altro canto, al di là della narrazione liviana, che vede esaurirsi l’impegno militare sul fronte apuano proprio fra 180 e 179 a.C., le tribù liguri dell’Appennino ancora nel 155 a.C. furono in grado di impegnare severamente le forze romane, se in quell’anno Marco Claudio Marcello celebrò un trionfo sugli Apuani, e l’evidenza archeologica, con la singolare restituzione di ghiande missili associate a monete romane degli anni Cinquanta e Sessanta del II secolo a.C. sui versanti del Monte Rondinaio e del Vallimona, al margine meridionale del massiccio apuano, offre una significativa testimonianza dello scenario in cui si manifestò l’ultima resistenza ligure a Roma[5].
L’apparato di mura, dunque, non era solo essenziale per esaltare lo status della colonia, ma poteva essere chiamato, anche in condizioni di urgenza, a sostenere attacchi, e a garantire – comunque – un sicuro rifugio ai coloni distribuiti nel territorio in una rete di insediamenti che – come era accaduto al sistema di abitati etruschi del III secolo a.C.[6] – poteva essere facile e appetibile obiettivo delle incursioni liguri.
Si deve dunque ritenere che l’impresa della costruzione delle mura fu realizzata in breve volgere di tempo, con l’impegno collettivo del corpo coloniale, e il coordinamento ‘tecnico’ di maestranze capaci di sfruttare la disponibilità di materia prima del territorio e le comode vie di trasporto offerte dalla rete fluviale proposta dall’Auser. Si deve a Paolo Mencacci l’individuazione delle cave del calcare cavernoso con cui venne realizzato il paramento esterno delle mura, nell’area di Quosa, sul versante sud-occidentale del Monte Pisano, mentre il compatto calcare bianco impiegato di regola per le assise inferiori e di base della cerchia poteva parimenti essere fornito dalle cave nel settore lucchese, settentrionale, dello stesso massiccio, che ancora nel Medioevo alimenteranno di questo litotipo i grandi cantieri romanici della città[7].
Alla diversa destinazione funzionale dei materiali disponibili, come è già stato più volte segnalato[8], corrisponde la diversa tecnica di lavorazione: il calcare cavernoso è ridotto in blocchi parallelepipedi funzionali alla stesura di un’opera quadrata con filari tendenzialmente isodomi, come traspare dal tratto meglio conservato, grazie al reimpiego fattone per la parete occidentale della chiesa di Santa Maria della Rosa, che vi si attesta[9]; il duro calcare bianco viene sottoposto alla lavorazione finale durante le fasi stesse di messa in opera – come certifica la costante presenza di schegge di lavorazione nei livellamenti delle fondazioni[10] – ed è ridotto in blocchi subparallelepipedi con faccia esterna spesso trapezoidale, funzionale alla realizzazione di giunture verticali oblique, in una versione ‘da manuale’ della ‘IV maniera’ dell’opera poligonale, così come è definita dal Lugli[11]. I blocchi sono allettati su piani orizzontali, ma viene sistematicamente perseguita la ricerca di connessioni fra i ricorsi, ricavando denti di ammorsamento.
Se già dall’ancora fondamentale recensione dei tratti superstiti delle mura di Lucca dovuta a Sommella e a Giuliani risaltavano queste peculiarità tecniche[12], recenti ritrovamenti sul lato orientale del circuito tardorepubblicano hanno offerto spettacolari attestazioni della coerenza con cui le maestranze applicarono le lezioni maturate nel fervore dell’attività edilizia dell’area centro-italica fra III e inizi del II secolo a.C.
In particolare, il paramento esterno della porta orientale – ricomposta sulla scorta della sequenza di attività di tutela sviluppata fra 2002 e 2009[13] – conserva sul lato meridionale, con accesso da Piazza Santa Maria foris portam (fig. 1, A), nel prospetto meridionale dell’avancorpo di protezione della porta quattro ricorsi (figg. 2-4; US 5): l’assise inferiore, alloggiata nel suolo limoso-argilloso di base in cui finiscono anche schegge di lavorazione della pietra, è formata da due blocchi sommariamente sbozzati anche sulla faccia esterna, evidentemente per la peculiare collocazione, con una scheggia di rinzeppamento a completare la giunzione. I tre ricorsi destinati a rimanere in vista sono rifiniti, seppur sommariamente, e i blocchi giustapposti con linee di contatto oblique, in un caso forse derivanti dalla frattura regolarizzata di un solo elemento di cava. Il dente che innerva nell’assise di fondazione il ricorso inferiore ha un’evidente connotazione funzionale, prevenendo l’eventuale slittamento fra i due filari. Alla struttura tardorepubblicana viene addossata, in momento non definibile su base stratigrafica, e comunque posteriore alla sequenza stratigrafica tardoantica cui si sovrappone, un’eterogenea struttura di ciottoli, blocchetti derivanti dal riutilizzo di elementi in calcare cavernoso o in calcare bianco dell’apparato originario delle mura (fig. 3, US 91-92-94).
È leggermente diversa la tecnica leggibile sulla parete delle mura (figg. 2; 5; US 1): anche il ricorso di fondazione, alloggiato direttamente sul suolo vergine appena manomesso, vede l’accuratissima rifinitura della faccia esterna, e a giunzioni oblique – talora completate da schegge di calzatura triangolari – si alternano successioni di blocchi regolarmente parallelepipedi, con l’aspetto di una vera e propria ‘opera quadrata’. Anche in questo settore viene ricercata la connessione fra i ricorsi lavorando la faccia superiore del blocco alloggiato nell’assise di fondazione in modo da ricavare un dente aggettante capace di consentire l’ammorsamento di due blocchi del primo filare.
A dimostrazione della coerenza delle tecniche costruttive impiegate, le stesse soluzioni sono immediatamente leggibili anche nel lembo di torre indagata nel 2008 all’incrocio fra Via Sant’Andrea e Via dell’Angelo Custode (fig. 1, B), prima concreta attestazione di questo accorgimento poliorcetico nel tessuto delle mura tardorepubblicane della città (figg. 6-8)[14].
L’assise di fondazione della torre è, come quella dell’avancorpo di protezione della porta, di blocchi sommariamente sbozzati o del tutto irregolari nella faccia esterna, messi in opera con giunti irregolari, ma tendenzialmente obliqui; la faccia superiore è però regolarizzata con accuratezza, per disporre di un perfetto piano orizzontale di alloggiamento per il filare di base affidato a blocchi parallelepipedi relativamente lunghi e sottili, giustapposti alternatamente con facce di contatto oblique o verticali, provvisti in un caso di dente di ammorsamento al ricorso soprastante, rispetto al quale sono leggermente aggettanti (figg. 6-8, US 26).
Il lembo superstite dell’apparato delle mura, come si è appena visto nel caso della porta, è di blocchi rifiniti in facciata anche nell’apparato di base (figg. 7-8), in cui sono riconoscibili almeno due filari, con il superiore che in corrispondenza dello spigolo è formato da due parallelepipedi sovrapposti, innervati nel filare di base con l’angolo diedro formato dalla faccia inferiore del blocco.
Il confine tra l’opera quadrata e la poligonale di IV maniera, per rimanere nell’ambito della classificazione del Lugli, è, come si vede, assai labile; le maestranze all’opera nella colonia Latina sono perfettamente partecipi della duttile aderenza alle occasioni offerte dalla materia prima disponibile che domina l’edilizia tardorepubblicana del bacino geografico dal quale, verosimilmente, provengono.
La componente laziale-campana dell’onomastica lucchese, recuperata in anni remoti nel pur scarno patrimonio epigrafico offerto dalla società lucchese della prima età imperiale[15], è infatti una possibile spia delle aree in cui furono reclutati i coloni Latini che – probabilmente integrati da una componente etrusco-settentrionale, e in parte anche ligure – formarono il corpo della città. Nell’ambito delle fondazioni coloniali del III e II secolo a.C. sono riconoscibili immediatamente gli accorgimenti planimetrici e tecnici applicati a Lucca[16], e lo stesso ‘blinguismo’ dell’opera quadrata in materiale ‘tenero’ (calcare cavernoso), del poligonale in materiale ‘duro’ (calcare bianco) trova a Ferentino una spettacolare dimostrazione, che, come a Lucca, potrebbe essere imputata all’esigenza di sfruttare contemporaneamente le varie cave di materia prima, disponendo altresì di maestranze versate nei due differenti campi di attività[17].
Se le mura di Lucca, con la datazione assicurata agli anni immediatamente successivi al 180 a.C., posssono assurgere a testimone prezioso nell’evoluzione – comunque assai lenta – delle tecniche edilizie nell’ambito ‘coloniale’ dell’Italia progressivamente unificata dall’ellenismo maturato nei contesti ‘municipali’, si dovrà tuttavia osservare che soluzioni del tutto comparabili a quelle impiegate a Lucca sono riconoscibili, come già più volte sottolineato, nelle mura urbiche di Fiesole[18]. Nell’incertezza sulla cronologia di questa struttura, genericamente riferita all’età ellenistica[19], si potrà almeno sottoporre al dibattito la possibilità che le maestranze di formazione ‘latina’ attive a Lucca o – più genericamente – nelle fondazioni coloniali dello scorcio finale del III o dei primi del II secolo a.C. abbiano reso popolari anche nell’Etruria settentrionale ‘modi di costruire’ che fino a quel momento erano rimasti peculiari dell’area culturale centro-italica romano-latina.

Bibliografia

Bruni 2010 = S. Bruni, “Fiesole e la media valle dell’Arno”, in Gli Etruschi delle città. Fonti, ricerche e scavi, a cura di S. Bruni, Cinisello Balsamo 2010, pp. 54-61.
Ciampoltrini 1988 = G. Ciampoltrini, “Prosopograhia Lucensis. Un contributo per la storia della società lucchese fra I e II secolo d.C.”, Actum Luce, XVIII, 1988, pp. 71-96.
Ciampoltrini 1995 = G. Ciampoltrini, Lucca. La prima cerchia, Lucca 1995.
Ciampoltrini 1996 = G. Ciampoltrini, “L’insediamento etrusco nella valle del Serchio fra IV e III secolo a.C. Considerazioni sull’abitato di Ponte Gini di Orentano”, Studi Etruschi, LXII, 1996, pp. 173-210.
Ciampoltrini 2008 = G. Ciampoltrini, La porta e la torre: nuovi materiali per le mura (e l’urbanistica) di Lucca Romana, Rivista di Topografia Antica, XVIII, 2008, pp. 23-34.
Ciampoltrini 2009 = G. Ciampoltrini, Metamorfosi di una città romana. Paesaggi urbani di Lucca dalla fondazione alla media età imperiale, in Lucca: le metamorfosi di una città romana. Lo scavo dell’area Banca del Monte di Lucca di Via del Molinetto, a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2009, pp. 10-64.
Ciampoltrini 2010 = G. Ciampoltrini, Edilizia rurale tra Valdarno e Valle del Serchio: la colonizzazione etrusca tra VI e V secolo a.C. e le deduzioni coloniali d’età augustea, in Etruskisch-italische und römische-republikanische Häuser, a cura di M. Bentz e Ch. Reusser, Wiesbaden 2010, pp. 135-143.
Ciampoltrini, Cosci, Spataro 2009 = G. Ciampoltrini, M. Cosci, C. Spataro, I paesaggi d’età romana tra ricerca aerofotografica e indagine di scavo, in Las Terra dell’Auser I. Lo scavo di via Martiori Lunatesi e i paesaggi d’età romana nel territorio di Capannori, a cura di G. Ciampoltrini e A. Giannoni, Bientina 2009, pp. 11-62.
Lugli 1957 = G. Lugli, La tecnica edilizia romana con particolare riguardo a Roma e Lazio, Roma 1957.
Mencacci 2001 = P. Mencacci, Lucca. Le mura romane, Lucca 2001.
Sommella, Giuliani 1974 = P. Sommella, C.F. Giuliani, La pianta di Lucca romana, Roma 1974.


[1] Si rinvia per un esame analitico e per la risolutiva conferma concessa dal dato archeologico alla fondazione di Lucca nel 180 a.C. a Ciampoltrini 2008, pp. 23-28.
[2] Per questo aspetto si rinvia a Ciampoltrini, Cosci, Spataro 2009, pp. 14 ss.
[3] Si veda a tal proposito Ciampoltrini 2010, pp. 141 s., con ulteriori riferimenti bibliografici.
[4] Per la formazione urbana di Lucca, Ciampoltrini 2009, pp. 23 ss.
[5] Ciampoltrini 2008, p. 26, con i riferimenti bibliografici.
[6] Analisi della complessa dialettica del rapporto fra Etruschi e Liguri della Valle del Serchio in Ciampoltrini 1996, pp.186 ss.
[7] Mencacci 2001, pp. 82 ss.
[8] Si veda da ultimo Ciampoltrini 1995, pp. 27 ss.
[9] Sommella, Giuliani 1974, pp. 24 s.; eccellenti immagini in http://www.luccaromana.com/index.php?it/99/le-mura, all’interno del sito curato da Lorenza Camin.
[10] Particolarmente significativi, a questo proposito, gli inediti dati di scavo nell’area del Galli Tassi e di Piazza Santa Maria foris portam.
[11] Lugli 1957, pp. 80 s., tav. VIII.
[12] Sommella, Giuliani 1974, pp. 22 ss.; si veda per successive acquisizioni Ciampoltrini 1995, passim.
[13] Ciampoltrini 2008, pp. 27 ss.; fig. 3, per la ricomposizione della struttura e l’analisi del tipo. Lo scavo fu diretto dallo scrivente, e coordinato da Elisabetta Abela, con la collaborazione di Sara Alberigi, Serena Cenni, Maila Franceschini, Laura Guidi; ad esse si deve la restituzione grafica di figg. 3 e 5.
[14] Ciampoltrini 2008, pp. 32 s. Lo scavo, finanziato dall’Amministrazione Comunale di Lucca, fu diretto dallo scrivente, e coordinato da Elisabetta Abela, con la collaborazione di Sara Alberigi, Serena Cenni, Irene Monacci; ad esse si deve la restituzione grafica di fig. 8.
[15] Ciampoltrini 1988.
[16] Ciampoltrini 2008, pp. 31 ss.
[17] Immediate le suggestioni di Lugli 1957, pp. 127 s., tav. VI, 1 per Ferentino.
[18] Ciampoltrini 1995, pp. 27 s., con il riferimento al classico Lugli 1957, pp. 80 ss., tavv. VIII; XI, 1.
[19] Si vedano ad esempio le osservazioni di Bruni 2010, p. 60: «la realizzazione, forse non lontana dalla metà del IV secolo, della cortina muraria» (di Fiesole).

venerdì 18 febbraio 2011

I fiori del Settecento, i fiori della morte



Fa tappa nelle devozioni sepolte, forse l'ultima, il viaggio nel Settecento tra Lucca e la Valdera iniziato tanti anni fa, pochi perché Carlo (Benvenuti) è ancora con noi davanti alla parete di terra di Gello con le zampe di gallo siglate e gli scarichi della fornace del vasaio che per la sua povera clientela di campagna tirava giù fiori in verde e rosso, non (ancora) i fiorellini alla frncese del Levantino, o i fiori delle fini maioliche dei signori di città.
Fiori e foglie degli infiniti servizi per i poveri del San Francesco e i Francescani di Lucca,  i fiori del rosario nella morte, per l'archeologo che cerca nelle immagini dei pittori della realtà del Settecento i colori che gli mancano, i legami di carne e di materia deperibile (sic) fra quel che la terra conserva. Non i colori delle carni e dei pesci, ma almeno quelli di pentole e fiaschi ... e il viaggio, fatta sosta nelle sepolture murate di Lucca e San Martino in Colle, nelle discariche delle ossa dei poveri lazzeri di Soiana, risalendo poi per la Valdera, prosegue, prosegue, come proseguono le storie che la terra racconta anche se l'archeologo che è arrivato alle soglie del Novecento e ritrova nella terra i segni della vita dei suoi nonni sente il peso dei Nuovi Giorni.

giovedì 17 febbraio 2011

I colori della morte (preparando una mostra sulle Vie dei Santi)





Dopo il verde del bronzo e l'oro dell'ottone dei Santi e delle Madonne, i colori della morte, assai adatti ad un febbraio che prepara l'inverno nella Terra dell'Auser e dei Quattro Fiumi.

lunedì 14 febbraio 2011

Il risotto etrusco alla pescatora: i granchi della Granchiaia e le vongole di Fonteblanda







Prendere granchi freschi della Granchiaia, sbucciarli con minuziosa passione di archeologi/-he Buche & Buccheri, riso (oddio, meglio il farro) del Chiecina, vongole di Fonteblanda, scaricate malamente nella discarica indifferenziata ai lati della plateia dell'impianto coloniale, cucinare il tutto in olle d'impasto con inclusi microclastici, aggiungere verdure e frutti della Terra dell'Auser, servire nelle forme 1-2 del repertorio del bucchero 'pisano' dell'archeologo Senzanome, bagnando con bianco della valle dell'Albegna, presentato in anfore Py 3 B a pasta rossa e ingobbio bianco (colori di moda), bevuto nella forma 3 (mah ...).
Pensieri allegri per giorni tristi. E per fortuna piove sulla Terra dei Quattro Fiumi, attendendo che l'impasto di Monica & Francesca lieviti, lieviti ...

domenica 13 febbraio 2011

La scacchiera di Paolo & Silvio






Si procede, casella su casella nella scacchiera tracciata fra i due fiumi, dove muovono il bianco dei ciottoli e il nero dell'uomo, mentre l'Auser rallenta le sue acque promettendo i giorni di primavera.
Il rombo della Rivoluzione si sfuma prima di raggiunger l'Esarulo, e gli Etruschi della Murella, metroquadro su metroquadro, raccontano la loro storia, consegnano a Paolo & Silvio testimonianze di fatiche e viaggi, tessitori e metallurghi, mercanti e pastori, chissà, fra selve generose di pece e di pericoli.
Le acque delle grotte e le acque dei fiumi, per il passo sereno di chi vuol vedere le vette all'altezza del suo sguardo, sono generose come le loro Ninfe obliate.

sabato 12 febbraio 2011

Mille anni di Etruschi a Porcari e l'ombra di Mauro Cristofani






Chissà cosa avrebbe pensato Mauro Cristofani, scabro e tagliente nel lucido genio, del suo remoto allievo che discettava di Etruschi e ne evocava le antiche e sempre moderne lezioni, entrate nel sangue di chi lo conobbe e seguì per un anno (accademico) a parlare di Etruschi e di Corsica, e vide la mostra suprema di Firenze, anni Ottanta, un sogno perduto nell'attesa di sogni. E i suoi libri che ancora pulsano di vita e di magistero, non facile, come non facile era il Maestro, anche per gli allievi marginali, che ospitava volentieri su Prospettiva, a discettar di tutto fuor che di Etruschi, non si sa mai. E far sentire ogni tanto chi era il Maestro, ma ogni tanto.
Ma le metafore riconosciute e non volute forse gli sarebbero piaciute, a Lui curioso di tutto, pronto a cogliere tutti gli strumenti del sapere per capire l'antico e il presente.
L'ombra del professor Cristofani, hinthial, come avrebbero detto gli Etruschi del Sud e del Nord, che solo dominava senza pari, dal piede delle Alpi fino al Monte Vesuvio, per un attimo, e per un attimo più lungo il ricordo di quell'Anno Accademico cupo figli degli ultimi anni Sessanta, plumbeo preludio agli anni di piombo, illuminato dal suo giovanil furore, a Pisa. Lo stile e la società, i modelli e le strutture, la concretezza del dato archeologico e l'analisi filologica di quello storico ... tutto insieme, dominato come le quadrighe di cavalli furiosi che guidati con mano solida e geniale trascinano nei viaggi nell'Oltretomba, alla nuova vita dopo la prima.
Anche Mauro Cristofani, nel simposio senza fine, dal cuore della casa etrusca costruita con architetture che sfidano tempeste, ancora ci trascina oltre i limiti della stanza murata che a Porcari segna lo spazio dei vivi, e della rifatta tomba Inghirami che ci porta nello spazio dei morti, mondi vicini e comunicanti, separati da un diaframma insuperabile.

giovedì 10 febbraio 2011

Il Volo del Cavolo nell'Orto della Capra






Vola il Cavolo, nell'Orto della Capra, perché la Capra possa crescere e fecondare la terra per nuovi cavoli, melanzane, peperoni, cetrioli, insalate ... buoni frutti della Terra, non Gigli dell'Auser di Maggio, ma non meno belli.
L'Archeologo Decollato, alla sua terza metamorfosi, e prima della quarta, va alla ricerca della testa esposta sul bel piatto ghirlandaiesco, baccellato come le graffite del Cinquecento, e se la trova coperta di elmetto, frastornato come trentacinque anni fa meno qualche mese. Trionfano tecnici ingegneri ingegnere archeologhe – anche se Silvia si stressa, passione mediterranea nelle Terre dell'Auser – architetti tagliatori di terra specialisti di gru e quant'altro, e l'Archeologo Decollato si domanda se e e quando vedrà il Trapianto del Cavolo.

mercoledì 9 febbraio 2011

Le gioie delle Ghiaie e delle Buche: letture aride per chi ha già visto le immagini


In attesa che Monica & Francesca cucinino impasti con inclusi microclastici nel fornello della Granchiaia, servendoli con una spruzzatina di bucchero a velo, per soddisfare i Quaranta Curiosi, un'anteprima assoluta per gli accaniti frequentatori del povero blog.

Giulio Ciampoltrini

Paesaggi e insediamenti etruschi d’età arcaica nella Terra dei Quattro Fiumi

Paesaggi etruschi tra indagini di scavo e ricerca aerofotografica

Le immagini satellitari che sono oggi punto di partenza ideale, talora quasi obbligato, per qualsiasi itinerario nei paesaggi – integrando con il colore della fotografia il dato comunque ‘mediato’ o filtrato della restituzione cartografica – permettono di apprezzare con immediata evidenza l’intreccio di vie d’acqua che guida la storia del Valdarno Inferiore.
Uno spettacolare scatto, da posizione leggermente obliquo, proposto dal sito che la NASA ha dedicato alle riprese fotografiche degli astronauti (fig. 1)[1], fa risaltare il corso dell’Arno nella valle chiusa a settentrione dalle Cerbaie, a sud dalle colline incise da Egola, Chiecina, Era, prima di aprirsi verso il mare nella Pianura di Pisa.
A nord, al piede delle Cerbaie, che quasi lambisce, scorre l’Usciana nei rettilinei voluti dalle bonifiche granducali del Cinquecento[2], per raggiungere l’Arno poco a monte di Pontedera. Il canale cinquecentesco, progressivamente arricchito sulla sua sinistra di altre opere di regimazione (l’Antifosso, il Collettore) è erede di un fiume meandriforme e dal letto mutevole che ancora alle soglie dell’anno Mille conservava l’antica denominazione etrusca, Arme – un idronimo che evoca immediatamente il nome antico del fiume Fiora, Armine[3] – usata per designare il corso d’acqua che usciva dal bacino in cui si impaludavano le acque della Nievole e delle due Pescie, di Pescia e di Collodi.
Se l’Arme-Usciana apre una via verso l’Appennino, il terzo fiume – l’Era – propone, con i suoi affluenti Roglio e Cascina, lineari assi di di penetrazione fino all’acropoli di Volterra, e, da qui, per la Toscana centromeridionale.
Il quarto fiume ha – come l’Usciana – conosciuto la severa disciplina delle opere di canalizzazione: il ramo di sinistra dell’Auser, che nel Medioevo quasi colmava la depressione fra Cerbaie e Monti Pisani con il Lago di Sesto o Bientina, per uscirne con un emissario che raggiungeva l’Arno all’altezza di Bientina, può oggi essere ripercorso nei canali della bonifica voluta dall’ultimo Granduca di Toscana. Non arricchisce più delle sue acque l’Arno, che sottopassa con la ‘botte’ di San Giovanni alla Vena, per proseguire nella piana fra Pisa e Pontedera fino a Livorno, ma nell’immagine satellitare il particolare può essere apprezzato solo indirettamente[4].
I quattro fiumi, dunque, indicano altrettante, comode vie: verso il nord, risalendo l’Auser; da est a ovest, dall’area portuale alla foce dell’Arno e lungo le lagune litoranee, per penetrare nell’interno sulle onde dell’Arno; a nord-est, per l’Arme-Usciana; per il sud, con l’Era.
La ricerca aerofotografica e l’indagine archeologica consentono oggi di ricomporre il sistema fluviale della ‘Terra dei Quattro Fiumi’, per l’età antica, e in particolare etrusca, sullo sfondo di un paesaggio che talora può essere apprezzato anche nei particolari.
Anche l’attuale corso dell’Arno, che nel tratto che qui si osserva è prevalentemente curvilineo, si rivela in effetti esito di una tormentata opera dell’uomo che – forse fin dalle colonizzazioni augustee che profondamente trasformarono il volto delle pianure dell’Etruria settentrionale[5] – ha rettificato un tracciato meandriforme comparabile con quello ancora conservato immediatamente a monte di Pisa. La paziente opera di lettura dei paleoalvei condotta da Marcello Cosci sulle immagini aeree e satellitari, poco prima che ci lasciasse, rivela nel tratto da Santa Croce sull’Arno a Bientina una sovrapposizioni di meandri (fig. 2) che talora sono minuziosamente documentati – come nel tratto che lasciava Calcinaia sulla sinistra del fiume, per giungere sino a Bientina e a Vicopisano, rettificato negli anni Sessanta del Cinquecento[6] – e in altri casi trovano puntuali riscontri nella toponomastica, come per l’Arno Vecchio che penetrava nella pianura fra Santa Maria a Monte e Montecalvoli fino a sfiorare il dosso dell’Arme-Usciana[7]. I frammenti ceramici restituiti dai contesti di scavo del sito di Sant’Ippolito di Anniano – prima fattoria della colonizzazione augustea, poi plebs baptismalis fra Tarda Antichità e Alto Medioevo – assieme al cippo marmoreo ‘acheruntico’ emerso negli anni Settanta del secolo scorso nella stessa contrada e recuperato dal compianto don Lelio Mannari (il ‘cippo Mannari’), sono un indizio ancora labile, ma suggestivo, degli insediamenti etruschi che dovevano disporsi sull’alta riva destra del fiume, dapprima fra VI e V secolo a.C., e poi nel III[8]; gli isolati materiali emersi a più riprese nel territorio fra Castelfranco e Santa Croce in escavazioni di profondità condotte sulla stesso dosso, come in Via dei Tavi di Castelfranco, aggiungono qualche elemento accessorio ad una rete di insediamenti del VI e V secolo a.C. che dovrà essere definita nei particolari[9].
È più articolata, per la singolare congiunzione delle opere di bonifica e di escavazioni in profondità, la ricostruzione del sistema di insediamenti che doveva attestarsi sul corso dell’Arme-Usciana. Soprattutto nel territorio di Castelfranco, dalla località Iserone sino al confine con Santa Croce sull’Arno, una continua attività di tutela – dispiegata soprattutto in occasione di opere di bonifica – ha dato solidità all’ipotesi che il dosso fluviale fosse capillarmente occupato, fra VI e V secolo a.C., da insediamenti che coniugavano le opportunità agricole con le occasioni dei traffici che potevano svilupparsi su un itinerario transappenninico che aveva forse nei nuclei demici emersi nell’area di Pieve a Nievole il terminale della via di valico[10].
Nella pianura castelfranchese, fra Arno ed Arme, ancora le opere di bonifica hanno portato in luce, in località Nacqueto, un insediamento frequentato nei decenni centrali del VI secolo a.C. che sembra trovare il punto di riferimento in un fiume – del tutto dimenticato – il cui alveo, letto nelle canalizzazioni della rinnovata opera di bonifica condotta fra 1998 e 1999, era livellato da sabbia (fig. 3) che restituiva anche frammenti ceramici etruschi d’età arcaica o classica. Ancora nel Medioevo, d’altronde, l’area compresa fra i dossi dell’Usciana e dell’Arno era percorsa da fiumi di cui restano le testimonianze documentarie e toponomastiche (Radicosa, rio di Comana)[11].
Se è stato possibile leggere in sezioni aperte da escavazioni in profondità negli anni Ottanta del secolo scorso i meandri dell’Usciana[12], e il fiumiciattolo sulle cui sponde fiorì per breve tempo l’insediamento di Nacqueto ha lasciato una solida testimonianza stratigrafica, si deve alla valutazione aerofotografica una seducente ipotesi sul rapporto tra fiume e insediamenti, in età etrusca arcaica e classica, nella piana fra Pontedera e Ponsacco.
È stato possibile alla paziente sagacia di Marcello Cosci riconoscere nelle immagini degli anni Cinquanta del secolo scorso, scattate prima che l’apertura dello Scolmatore dell’Arno mutasse l’assetto delle falde e, di conseguenza, la leggibilità dei paleoalvei, un sepolto corso d’acqua meandriforme, il cui esito traspare – stavolta nelle immagini satellitari – sin quasi alle lagune costiere che si distendevano alle spalle delle dune litoranee, a sud di Pisa (fig. 4): un ramo dell’Arno, che doveva solcare la Pianura di Pisa a sud del principale, ancora attivo, e che ha un erede medievale nell’attuale canale dell’Arnaccio[13].
La datazione dell’arco di attività di questo paleoalveo è stata avanzata sulla scorta degli insediamenti che si dispongono sulle sue perdute rive; dalle aree di vita individuate con la ricerca di superficie, sino a quelle scavate – come nel caso dell’abitato delle Melorie di Ponsacco – si profila infatti un coerente sistema di insediamenti che almeno dagli inizi del VI fino all’avanzato V secolo a.C. sembra trovare proprio in questo corso d’acqua, perduto già sotto la centuriazione augustea, un potente catalizzatore[14]. È dunque suggestiva, seppure ancora in attesa di ulteriori sostegni e di verifiche adeguate, l’ipotesi che questo ramo fluviale debba essere identificato con uno dei bracci in cui l’Arno, stando a Strabone o alla sua fonte, si divideva prima di Pisa e della foce[15].
Il modello che si sta delineando, e che vede in età arcaica e poi classica gli abitati concentrarsi pressoché senza eccezioni sulle rive del fiume, sembra meno valido per la Media Valdera. All’evanescenza dei dati disponibili su insediamenti perifluviali[16] fa da contrappunto la rete di abitati d’altura in cui l’appassionata ricerca di Carlo Benvenuti, con le indagini nel territorio fra la Tosola e Montefoscoli, ha consentito di inserire il caso sino ad allora isolato di Montacchita[17], e che sembra funzionale ad una strategia di controllo da posizione dominante degli assi itinerari. Anche l’isolato contesto d’età arcaica recuperato negli anni Settanta sul punto più elevato (quota 203, la ‘Pineta del Maltufo’) della via di crinale da Marti a Palaia[18] potrebbe rivelare la metodica occupazione dei punti nodali del territorio. In questo distretto si sarebbe dunque dispiegato già agli albori del VI secolo a.C. – come dichiarano i contesti di Montacchita –il sistema combinato di insediamenti d’altura e perifluviali che nell’angolo nord-occidentale dell’Etruria si affermerà, invece, solo nello scorcio finale dello stesso secolo[19]. Ovviamente non è possibile ricondurre a fattori sociali o politici le diverse connotazioni degli abitati. Se è plausibile che l’intera Terra dei Quattro Fiumi trovasse già nel VI secolo a.C. il polo urbano di riferimento in Pisa, terminale della rete di vie d’acqua che lo innerva, e l’evidenza archeologica tratteggia nella fascia di Valdera in cui ricadono Montacchita e Montefoscoli un’area di contatto con la chora di Volterra[20], un rapporto fra struttura degli insediamenti e bacini di influenza o di egemonia delle singole città etrusche, soprattutto per l’età arcaica, non trova alcun concreto sostegno nei dati disponibili.
Paradigmatica del ruolo dominante – o esclusivo – svolto dal fiume per lo sviluppo dell’insediamento in età arcaica è la struttura dei paesaggi che si dispiegano sugli intrecciati rami in cui l’Auser si divide appena raggiunta la pianura, a valle della stretta di Ponte a Moriano (fig. 5): i bracci di sinistra, che si riunivano per confluire – come si è detto – nell’Arno all’altezza di Bientina (Auser I-II); il ramo centrale, oggi ridotto al modesto corso dell’Ozzeri; il braccio di destra, un tempo secondario – l’Auserculus – e divenuto oggi il più ricco d’acqua, capace di imporre il suo nome a tutto il fiume, il Serchio. Non è questa la sede per affrontare la tormentata tematica della storia del fiume, ma è un dato acquisito che fra VI e V secolo a.C. le rive della rete d’acqua formata dall’intreccio dei rami del fiume – mirabilmente ricomposta da Marcello Cosci sulla scorta della lettura delle immagini aeree e satellitari[21] – condensarono pressoché senza eccezione l’insediamento etrusco, almeno nel settore planiziale (fig. 6)[22].
Come è da attendersi, il sistema fluviale letto nelle immagini aeree può fondere diverse fasi di vita del fiume e un mutare di paesaggi che talora rimane oscuro, in casi felici può essere ricomposto sulla scorta di elementi esterni – come è appunto il caso di veri e propri ‘sistemi di insediamento’ dossivi – in casi ancora più fortunati può essere illuminato dal dato archeologico, che conferma l’elevata volatilità dei paesaggi fluviali, soprattutto in momenti caratterizzati da un sottile livello di pressione demografica e da conseguente limitata capacità di modificare i paesaggi.
Già fra 1994 e 1995 era stato possibile individuare in due distinti punti, con la sistematica documentazione delle stratificazioni incise dal tracciato di un metanodotto, rami dell’Auser – altrimenti ignoti – nel territorio di Capannori, a sud-est di Paganico; in un caso almeno era possibile riferire ad età etrusca il corso d’acqua[23]. Infine, nella primavera del 2010, grazie alle singolari occasioni offerte dall’archeologia di tutela contestuale alla costruzione di un nuovo asse stradale, poco ad est del centro di Lucca – immediatamente a nord del cimitero di San Filippo – è apparso un ramo dell’Auser attivo in età etrusca (figg. 7-15)[24].
L’affioramento di ciottoli e ghiaie con la presenza – sottilissima ma coerente – di materiale ceramico riferibile ad orizzonti etruschi del VI-V secolo a.C., se non altro per la dominante presenza di impasti con inclusi microclastici, indusse immediatamente a procedere ad un esteso saggio d’accertamento. Per tutta la sua larghezza, anche se con l’estensione limitata alla fascia investita dal manufatto stradale, fu messo in luce un sedimento a matrice sabbioso-limosa (US 3), con ghiaie medio-fini e ciottoli, coerente e compatto nel settore centrale, dall’aspetto lenticolare ai margini, sottostante a strati limo-argillosi con materiali ceramici d’età medievale e moderna (US 2; figg. 7-8; 10); era inciso da una fossa con andamento nord/sud (US 25), colmata da una sequenza di sedimenti limoso-argillosi (US 26-27) con rarissimi frammenti ceramici acromi, riferibili plausibilmente ad orizzonti medievali.
Le due trincee con cui se ne valutò lo spessore permisero di accertare che il sedimento US 3 aveva dapprima livellato e poi sepolto (figg. 11-13) una rete di ‘canali’ incisi nel suolo limoso-argilloso di base (US 13). Nel settore centro-orientale (US 8-12) i ‘canali’ raggiungono o superano i 50 cm di profondità, con profilo accentuatamente concavo (fig. 14), o con aspetto di fosse strette, subrettangolari in sezione (US 5-7); sono invece appena percepibili nelle fasce laterali, con fondo talora pressoché piatto (US 16-20, a ovest; 21-23 a est; fig. 15). La granulometria della ghiaia non mostra apprezzabili discontinuità fra i livelli superiori e inferiori del sedimento, mentre la presenza di ciottoli aumenta progressivamente verso l’alto, proponendo una sequenza deposizionale che vede dapprima il prevalere della componente ghiaioso-sabbiosa, integrata progressivamente da ciottoli, tanto che l’interfaccia con US 2 assume l’aspetto di un vero e proprio acciottolato. Nelle fasi preliminari dell’indagine, in effetti, la morfologia del sedimento che affiorava sotto i livelli limo-argillosi invitò a valutare anche la possibilità che questo fosse antropico, interpretabile come via glareata o – data l’estensione – area comune ‘di servizio’ di un abitato: un ‘piazzale’ di raccordo fra una serie di nuclei insediativi, come nell’abitato del V secolo a.C. indagato fra 1988 e 1989 nella vicina Tempagnano[25].
Dai saggi in profondità l’ipotesi è stata esclusa, giacché la morfologia dei ‘canali’, soprattutto con l’intreccio distintamente riconosciuto nella trincea aperta nel settore settentrionale dello scavo, mostra un inequivocabile aspetto ‘intrecciato’ (figg. 11-13) che impone di ricondurre le stratificazioni di ciottoli e ghiaia ad una matrice fluviale, e, in particolare, ad un corso d’acqua che nella fase iniziale si manifestava con un ‘alveo a canali intrecciati’ – braided river, per ricorrere alla terminologia inglese dominante in questo campo dell’indagine[26]. Attestati in Italia oggi dal solo Tagliamento – per limitarsi ai fiumi di maggior portata – i fiumi ‘con alveo a canali intrecciati’ sono un aspetto consueto in paesaggi in cui l’intervento antropico sulla morfologia del paesaggio è debole, e comunque non tale da condizionare i corsi d’acqua. In particolare, i braided rivers sembrano caratterizzare gli ambienti con un elevato mutamento delle pendenze e della rapidità delle correnti (fig. 16).
Nel caso specifico del paleoalveo incontrato ed esplorato a San Filippo, rimane da valutare la possibilità che esso debba essere riconosciuto in uno dei rami dell’Auser letti da Marcello Cosci nelle immagini satellitari (fig. 5), giacché la risoluzione fotografica non è tale – anche in relazione all’ampiezza massima del sedimento di ghiaia e ciottoli, che supera di poco i 20 m – da consentire valutazioni univoche. Per contro, la modestissima ma coerente presenza di frustuli ceramici, per di più non fluitati o appena consunti ai margini, riferibili a impasti microclastici databili fra VI e V secolo a.C., come certificano in particolare i bordi di olle con labbro svasato, arrotondato (fig. 17)[27], assicura sulla formazione del deposito nel corso del V secolo a.C., forse come episodio delle profonde trasformazioni ambientali che concorsero alla drammatica crisi del sistema di insediamenti etruschi[28]. Allo stato attuale dei dati disponibili – anche in relazione alla modestissima estensione del sedimento individuato, di cui solo si può apprezzare un orientamento quasi esattamente nord/sud – solo con un’ipotesi di lavoro si potrebbe argomentare che il corso d’acqua si sia formato per effetto di una rotta o di una tracimazione capace di incidere decisamente il sedimento limo-sabbioso nel quale il fiume si apriva un nuovo letto, per poi estinguersi per effetto di una progressiva ostruzione. Il depositarsi dei ciottoli sui livelli superiori delle ghiaie segnerebbe il momento conclusivo della storia di questo ramo dell’Auser, che dovrebbe essere posto ancora entro il V secolo a.C., stando alla modestissima fluitazione degli impasti microclastici.
Il rapporto fra il paleoalveo emerso a San Filippo e l’insediamento etrusco d’età arcaica incontrato a qualche centinaio di metri di distanza, ad est, nell’area del Nuovo Ospedale di Lucca[29], o con il villaggio vissuto a Tempagnano nel corso del V secolo a.C.[30] allo stato attuale delle conoscenze resta nell’ambito della mera ipotesi, tanto più che non è possibile escludere che l’attività di questo ramo fluviale debba essere circoscritta ad un episodio della storia complessa che le acque dell’Auser-Serchio conobbero prima dell’intervento umano.

Forme e strutture degli insediamenti d’età arcaica

Nella ricostruzione di Marcello Cosci è ben riconoscibile un ramo dell’Auser che, con corso meandriforme, si dirama dall’Ozzeri per muoversi poco a sud dell’attuale centro storico di Lucca (fig. 5). Una datazione ad epoca etrusca di questo paleoalveo potrebbe essere confortata dalla collocazione sul suo ipotetico dosso – oggi non più riconoscibile sotto l’urbanizzazione della periferia meridionale di Lucca – della necropoli scavata nel 1982 in Via Squaglia, a Lucca-San Concordio[31], e confermata dal piccolo abitato emerso nel 2010 durante le attività di archeologia preventiva condotte nell’antica area dell’Officina del Gas di Lucca, ancora a San Concordio[32].
Con l’articolazione dei suoi dati, il sito arcaico di Lucca-San Concordio si è aggiunto alla serie di insediamenti oggetto di una sintesi nel convegno dedicato a Bonn, nel 2009, all’edilizia residenziale etrusco-italica e romana[33], concorrendo ad enucleare, all’interno di una varietà estrema dei tipi – acuita anche dalle condizioni che di volta in volta hanno modulato lo sviluppo dello scavo – tratti comuni dell’abitato d’età arcaica nella Terra dei Quattro Fiumi.
Rinviando alle varie sedi in cui se ne è proposta l’edizione una recensione analitica dei dati di scavo, si sintetizzano di seguito i tratti essenziali dei vari complessi.
I due nuclei insediativi esplorati nel 2003-2004 a Montacchita propongono – con diverse soluzioni – un’articolazione dell’edificio residenziale intorno ad un ambiente centrale sub-circolare, probabilmente conservando le tradizioni dell’Età del Ferro, concretamente attestate in questo tratto dell’Etruria nord-occidentale nell’abitato del Chiarone di Capannori (fig. 1)[34]. La ‘capanna A’, in particolare (fig. 18), nel rispetto rigoroso del costume villanoviano, è completata dal vestibolo quadrangolare, disposto sul piano di campagna (A), da cui si accede all’ambiente sub-circolare, sottoscavato in un vero e proprio ‘fondo di capanna’ (B); la copertura è affidata ad un solo palo portante, disposto in posizione centrale (C).
Si è sottolineata la parentela di questo schema con la planimetria delle tholoi del territorio volterrano – Casaglia e Casale – e, di conseguenza, si è avanzata la proposta che nell’Etruria nord-occidentale della fine del VII e dei primi del VI secolo a.C. esso non conservasse solo la valenza sacrale che lo faceva adottare per le dimore dei morti, ma mantenesse ancora una concreta funzionalità per gli insediamenti[35].
In effetti, ancora intorno alla metà del VI secolo a.C. ‘capanne’ di planimetria subcircolare o ellittica si alternano nel vasto distretto che va dal Valdarno alla Garfagnana a strutture di pianta quadrangolare; le prime e le seconde, quando lo scavo ha ottenuto un respiro adeguato, sembrano completate ancora da un vestibolo. L’attestazione più significativa di questo secondo tipo rimane quella offerta dal nucleo centrale dell’insediamento di Piari, nell’Alta Valle del Serchio, forse eretto da ‘pionieri’ che sfruttavano le selve apuane per la lavorazione della pece[36]; ancora una volta, è da segnalare la parentela fra case dei vivi e case dei morti, come risalta dal confronto della planimetria del complesso di Piari con quella – per limitarsi all’ambito dell’Etruria settentrionale – della tomba dei Boschetti di Comeana, proposta già al momento dell’edizione dello scavo[37].
Lo scavo delle Melorie di Ponsacco (figg. 1; 3)[38] ha comunque testimoniato che nel Valdarno il tipo circolare conservava ancora nei primi decenni del VI secolo la vitalità sin qui indiziata essenzialmente dalla ‘capanna’ dell’area Scheibler, alla periferia di Pisa, scavata da Stefano Bruni[39]. La prima fase di frequentazione dell’area è ancorata dai materiali restituiti dalle stratificazioni che ne segnano la nascita e la vita tra 560 e 520 a.C. circa, con la ceramica attica (fra cui una kylix a occhioni e frammenti di lip-cups) che si dispone intorno al limite inferiore, e una oinochoe in bucchero con decorazione impressa, attribuibile alle manifatture pisane, al limite superiore[40].
L’unità insediativa che è al cuore dell’abitato è delineata, in questa fase, da una sequenza ellissoidale di alloggiamenti per palo, nel lato meridionale, e di ciottoloni, in quello settentrionale (figg. 19-21); la ricostruzione è sostenuta non solo dalla coerenza delle due serie di elementi struttivi, ma anche dallo spesso strato di argilla concotta che si accumulò al suo interno, ripetendo il profilo delle possibili pareti, e che dovrebbe essersi formato con l’incendio che distrusse l’edificio (US 312: fig. 20). Un focolare subcircolare, ricavato nel suolo di base (US 257), doveva completare la dotazione esterna del complesso, assieme al fornetto (US 259) ricavato poco ad ovest (fig. 19).
Assieme alla possibilità che l’unità insediativa delle Melorie-Fase I debba essere ricostruita come una vasta ‘capanna’ subcircolare, occorre tuttavia valutare l’ipotesi che la struttura altro non fosse che una grande tettoia, diversamente articolata nelle due metà; la serie di pesi da telaio finita nei livelli di vita e di abbandono segnala l’attività tessile che vi si svolgeva, e quindi un’interpretazione dell’edificio come struttura non residenziale, ma meramente produttiva è almeno plausibile. In questo caso l’area ‘residenziale’ di questa fase dell’insediamento si dovrebbe ritenere perduta, o non identificata.
Anche la ‘capanna’ messa in luce, solo in parte, nel 1993 a Fossa 2 della Bonifica di Bientina, nella bassa piana dell’Auser (figg. 1; 6), sembrava invece – al momento dell’edizione e delle successive rivisitazioni – aderire, seppure con variazioni, al modello proposto da Montacchita e Piari (figg. 22-23)[41]: del vestibolo (Area A) innalzato sul piano di campagna, era ancora leggibile buona parte del sistema portante, con i pali in legno ancora conservati (fig. 23); la morfologia quadrangolare dell’unità insediativa centrale, depressa (Area B), era invece ipotizzabile essenzialmente per la sequenza di gradini che vi immettevano dal vestibolo.
L’anfora etrusca di tipo Py 3 B frantumata in situ sul fondo dell’ambiente depresso assieme ad una piccola serie di kyathoi miniaturistici, forse in un rituale di fondazione, ne data la costruzione intorno al 580-570 a.C., e la sequenza di ceramiche che la livellarono progressivamente ne circoscrive la frequentazione nei decenni centrali del VI secolo a.C., restituendo anzi il repertorio più esauriente dei tipi ceramici in uso in questo tratto di Valdarno nella piena maturità della cultura etrusca d’età arcaica di questo territorio[42].
Il bucchero nero soddisfa pressoché tutte le esigenze della mensa, con il vero e proprio servizio – prodotto nella pasta omogeneamente nera o tendente a divenire grigiastra impiegata dalle botteghe pisane – basato sulla coppa carenata (forma 1: figg. 24, 1; 25, 1) e sull’olletta-poculo di vario formato (forma 2: figg. 24, 2; 25, 5), che potevano accogliere e presentare alla mensa cibi o liquidi[43].
La forma profonda, pressoché emisferica (fig. 25, 4) potrebbe piuttosto essere ricondotta alla famiglia dei bacini (forma 4), o – meglio ancora – delle pissidi, confermando l’attendibilità di uno schizzo che conserva i tipi ceramici impiegati come cinerario nella necropoli emersa a San Giovanni al Gatano, nella periferia occidentale di Pisa, nel 1771[44].
A pissidi devono comunque essere riferiti i coperchi di vario formato (figg. 24, 3; 25, 3 e 7), sui quali è più comune che sulle coppe la stampigliatura, ripetuta, di un cerchiello doppio, normalmente in gruppi di tre (figg. 24, 3; 25, 3), o, come nel caso del coperchio, di una serie di ventaglietti, ottenuti con il passaggio di rotelle (fig. 25, 7).
Nel bere, probabilmente anche con una valenza sacrale, come si è detto, erano impiegati anche attingitoi miniaturistici (fig. 26, 7-8).
L’impiego delle stampigliature decorative, con figurazioni animali o vegetali, che connotano questa classe nella fase iniziale di produzione, al momento in cui visse la casa di Fossa 2, intorno alla metà del VI secolo a.C., doveva essere in declino, sostituito dalle semplici e schematiche punzonature circolari[45].
Raffinata ceramica per bere è quella modellata in una depuratissima pasta avana, coperta da una sottile vernice rossastra; sono presenti coppette, con labbro rientrante, o carenate (fig. 25, 8-9). Sono probabilmente l’imitazione locale dei prestigiosi capi verniciati, se non anche provvisti di sistema decorativo, che sul modello greco sono prodotti in ampie parti dell’Etruria nel corso del VI secolo a.C; questa versione potrà essere attribuita a qualche officina ceramica dell’Etruria settentrionale o ancora una volta della stessa Pisa[46].
Le vivaci attività intorno al focolare, o i depositi domestici, in cui si conservavano acqua, vino o altri liquori, cereali e altri prodotti alimentari, sono rispecchiati dalla massa di ceramiche modellate nel robusto impasto con inclusi microclastici[47]: sono grandi e piccole olle, con labbro svasato (figg. 26, 1-4; 27, 1), o rientrante, sottolineato da solcature parallele (fig. 26, 5); questa redazione può essere provvista di manici (fig. 27, 2). Un elementare sistema decorativo, ereditato dalle tradizioni ceramiche del Bronzo Finale e dell’Età del Ferro, è formato da un listello a rilievo, sul quale spicca una bugna.
Alla chiusura delle olle, soprattutto quelle di piccolo e medio formato, è destinato un particolare coperchio, fornito di una presa a maniglia (fig. 26, 6).
Gli impasti con inclusi microclastici prodotti a Pisa e nel suo territorio rispecchiano comunque modelli funzionali comuni in tutta l’Etruria, e, in particolare, nell’Etruria settentrionale. La coerenza del repertorio morfologico di riferimento trova infatti una limpida spia nella presenza a Murlo del tipo di foculo per la presentazione di cibi attestato a Fossa 2: ampio fondo piano, spessa parete obliqua, dotata di manici o ornata da bugne, che si eleva progressivamente sul retro, mentre nella parte anteriore si abbassa con altrettanta progressione sino a lasciare il vaso aperto (figg. 27, 3-4), per favorire l’alimentazione del fuoco che vi era conservato o, piuttosto, dato che gli esemplari di Fossa 2 non recano vistose tracce di fuoco, per poter meglio attingere gli alimenti che venivano presentati alla mensa in questo particolare oggetto.
L’assenza di prodotti importati da ambiti che non siano quello strettamente locale è pressoché completa, così che l’anfora del deposito di fondazione è la sola presente nell’intero complesso; in questo Fossa 2 non si distingue dalla situazione consueta degli insediamenti del VI secolo a. C. della Piana dell’Auser, in cui acquisizioni dal commercio marittimo sono pressoché casuali.
La ceramica documenta anche l’alfabetizzazione di chi viveva a Fossa 2. Al contrassegno alfabetico inciso sul fondo di una coppa di bucchero, si aggiunge la formula di appartenenza graffita con sottili e rapidi tratti sulla parete esterna di una coppa ormai non più di bucchero nero, ma della classe ceramica, grigiastra e con inclusi, che ne eredita le funzioni sul declinare del VI secolo a.C.: mipamu (fig. 25, 2). In questa – da sciogliere in mi pamu («io [sono di] Pamu») – si deve infatti riconoscere il nome (pamu) del titolare della coppa, il primo Etrusco della piana dell’Auser di cui si conosce la formula onomastica – probabilmente unimembre – tracciato con un sistema grafico assai simile a quello presente nei contemporanei graffiti del territorio versiliese[48].
I materiali di Fossa 2 propongono un terminus ante quem per la collocazione cronologica dell’abitato di San Concordio, in cui ritornano pressoché tutti i tipi appena definiti, ma con la tangibile presenza, nel bucchero nero, della coppa carenata caratterizzata, nella tradizione propria della fase iniziale della produzione di questa classe, dalla sequenza di scanalature praticate subito sotto l’esterno del labbro (forma 1, variante A)[49]; se ne potrà proporre dunque una datazione ancora entro la prima metà del VI secolo a.C.
In questi decenni, dunque, si svolge la vicenda narrata dallo scavo (figg. 28-34)[50].
La prima sistemazione antropica dell’area è tracciata dalla glareata US 168 (figg. 28-29), formata accumulando sul suolo di base – limoso-sabbioso, giallastro (US 150) – ghiaia di granulometria medio-fine immersa in una matrice sabbioso-limosa; lo spessore del riporto, mediamente di 10-15 cm, e l’estensione (i lati superstiti sfiorano i 2,5 m) ne indiziano il ruolo di ‘pavimentazione’.
Su lembi della glareata e sull’area circostante si accumula un sedimento antropico ancora a matrice limoso-argillosa, di colore verdastro (US 149), che traccia anche la ristrutturazione dell’abitato.
Subito a sud della glareata 168 viene infatti aperta una fossa a fondo concavo (US 155; fig. 30), sul cui margine, in corrispondenza della glareata ormai obliterata dalla sedimentazione antropica, è tracciata una sequenza di alloggiamenti per palo, del diametro medio di una ventina di cm (US 169 a-c), che sfruttano l’area già consolidata dalla ghiaia – assieme alle buche US 170 a-b – per realizzare almeno una parete di una struttura insediativa, il cui lato meridionale era dunque di circa 2 m. La parete settentrionale potrebbe essere indiziata, all’angolo orientale, dalla buca US 172, in cui il palo ligneo doveva essere rinzeppato anche da ciottoli e frammenti ceramici disposti in posizione verticale. La ‘capanna’, in questo caso, si sarebbe presentata di pianta sub-quadrata, articolata all’interno anche dalla fossa US 153, livellata da terreno argilloso e concotti, pietrame e ciottoli, oltre che da frammenti ceramici esposti al fuoco, che ne denunciano la relazione ad attività di focolare.
Il terreno annerito che colma la fossa subcircolare US 171, ricavata sul lato settentrionale, denuncia la contiguità di ‘aree di fuoco’ che tuttavia dovrebbero piuttosto essere cercate all’esterno della ‘struttura residenziale’, come attestano anche le tre concavità ‘di servizio’ incontrate nel settore occidentale dello scavo: la buca US 165, ellittica in pianta e concava in sezione, con la caratteristica presenza di un ‘gradino’ sul margine orientale, protetto da una glareata assimilabile a US 168 (fig. 31); la fossa US 167, subito ad est della ‘capanna’, ancora ellittica in pianta, dal profilo scandito da un ‘gradino’, divenuta nella fase d’uso che ne precede la definitiva obliterazione – data anche l’evidente contiguità all’area di vita – la discarica in cui finì una massa di ceramiche (fini da mensa e d’impasto), immerse in un terreno grigio-nero caratterizzato dalla prevalenza di carbone e concotti, inglobati in una matrice limosa (US 154; figg. 32-33); infine, a sud della canalizzazione US 155, la buca US 173, la cui prima destinazione potrebbe essere indicata dai ciottoli disposti sul fondo, quella finale dal terreno ancora prevalentemente carbonioso che la livellò (US 174; fig. 34).
La crisi ecologica che segnò la rapida fine del piccolo insediamento – come dimostra la coerenza dei materiali restituiti da tutti i contesti – è attestata, più che dal sedimento argilloso-limoso, alluvionale (US 149) che copre la sequenza di strutture, dai corposi resti vegetali (US 156/1) che obliterano – suggellati da un sedimento limoso-argilloso dalla marcata colorazione bluastra (156) – la fossa US 155, segnalandone la fine in un momento di nuova copertura vegetale dell’area.
In attesa che le indagini paleoambientali, con la ricerca sulle specie vegetali, qualifichino l’ambiente palustre che assorbì i relitti dell’abitato arcaico di San Concordio – la cui vita è sostanzialmente coeva all’arco di uso della necropoli di Via Squaglia[51] – dopo il piccolo tentativo di ‘bonifica’ che sembra indiziato proprio dall’apertura stessa della fossa, si potranno mettere in evidenza le analogie fra Fossa 2 e San Concordio: ‘sistemazione’ e preparazione dell’area di vita o delle sue adiacenze con l’accumulo di ghiaie; strutture residenziali (‘capanne’) di modesta estensione; sequenza di ‘aree di servizio’, che nello scavo si presentano come fosse variamente articolate, all’esterno.
Alla luce del caso di San Concordio, dunque, dovrà almeno essere valutata la possibilità che la profonda depressione che connota il settore orientale dell’insediamento di Fossa 2 (Area B) debba essere interpretata non come componente della ‘struttura residenziale’ – limitata all’Area A, con il contiguo settore pavimentato – ma possa essere ritenuta l’equivalente delle ‘buche di servizio’ esterne alla ‘capanna’ di San Concordio.
Anche questo modello trova un suggestivo precedente nella fase villanoviana del Chiarone (fig. 35)[52]: la serie di pali US 150 è in relazione – come certificano le restituzioni ceramiche – con l’ampia concavità US 203, e con la fossa US 183, gravemente manomessa dalla millenaria sequenza di frequentazione dell’area posta sulla grande ansa dell’Auser (fig. 6).
Alla fase villanoviana, riconducibile ad orizzonti dell’avanzato VIII secolo a.C., segue al Chiarone una rioccupazione collocabile sullo scorcio finale del VII secolo, attestata ancora dalle copiose restituzioni dei contesti che livellano la sequenza di buche US 85-87-91, e, quasi senza soluzione di continuità, un insediamento ancorato ai primi decenni del VI secolo a.C. dalle tipologie del bucchero nero. Continuità di vita e fenomeni alluvionali hanno fatto sopravvivere e reso disponibili all’indagine archeologica solo le concavità: buche di palo (US 105, 108, forse 83); fosse divenute, come a San Concordio, immondezzai (US 75 e 104: fig. 36); una vasta ed articolata buca subcircolare (US 149), che con il ‘gradino’ letto sulla sua parete orientale (fig. 34, particolare in alto) offre un parallelo stringente alla morfologia delle concavità US 165 e 167 di San Concordio. L’ipotesi – formulata già nella prima edizione – che la destinazione funzionale iniziale della fossa US 149 fosse a contenitore di derrate – un vero e proprio silo – continua a conservare un’intrinseca plausibilità, ma è certo che, nell’insieme, negli abitati etruschi del VI secolo che si dispiegano nella Terra dei Quattro Fiumi il ruolo ‘di servizio’ che poteva essere svolto dalle fosse aperte intorno alle strutture insediative vere e proprie era, verosimilmente, assai complesso e articolato; nella lettura stratigrafica si prospetta di esegesi altrettanto difficile, anche perché, di regola, i livellamenti ne certificano solo la fase estrema di vita, quando spesso divengono immondezzai strutturati o, ancor più di frequente, finiscono per essere colmati casualmente dai rifiuti che si formano intorno alle capanne. Anche a Nacqueto, in un’area altamente soggetta ai dilavamenti alluvionali, solo relitto dell’insediamento arcaico erano concavità che hanno restituito un repertorio di ceramiche dei decenni centrali del VI secolo a.C. perfettamente sovrapponibile a quello proposto da Fossa 2 (figg. 37-38)[53].
È alla luce dei casi accumulati in più di venti anni di ricerche programmate o esito di mera attività di tutela fra Valdarno Inferiore, Bassa Valdera, Piana dell’Auser, che potranno essere valutate le sequenze stratigrafiche esplorate sulla riva del fiume Chiecina, quasi alla confluenza con il Fosso della Granchiaia, nell’autunno del 2007. Segnalato dalla passione che Daniela Pagni dedica alla storia del territorio di Marti, scavato con la passione dei volontari (e soprattutto delle volontarie) del Gruppo Archeologico ‘Isidoro Falchi’, e con la professionalità di Monica Baldassarri e delle sue collaboratrici, l’insediamento del Chiecina ricade appieno nella tipologia di abitati perifluviali che caratterizza la Terra dei Quattro Fiumi d’età arcaica, seppure annodandosi, in queste anguste valli parallele, con siti d’altura, in un connubio che attende nuove riflessioni, e, soprattutto, nuove ricerche.
Un pensiero, in conclusione, per Carlo Benvenuti. Ancora nei suoi ultimi giorni, con le risorse che gli davano solo la passione e l’entusiasmo era sullo scavo, a ritrovare i ‘segni’ delle storie sepolte che aveva cercato dalla sua amatissima Palaia, fra Chiecina ed Era. A lui vorremmo dedicare – se ci sono – i frutti di quell’autunno.


[1] Http://eol.jsc.nasa.gov. Un particolare apprezzamento alla NASA per la possibilità di riprodurre le immagini, di elevata qualità, disponibili sul sito, previa citazione della fonte.
[2] Per la storia del fiume, si veda Morelli 1984, con le annotazioni di Ciampoltrini 1998, p. 24; Ciampoltrini – Cosci – Spataro c.d.s, che si riassume ampiamente in questa sede.
[3] Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2008, pp. 15 ss.
[4] Ciampoltrini – Cosci – Spataro c.d.s.
[5] Si veda da ultimo Ciampoltrini – Cosci – Spataro 2009, pp. 48 ss.
[6] Ciampoltrini – Cosci – Spataro c.d.s.
[7] Ciampoltrini – Cosci – Spataro c.d.s.
[8] Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2008, pp. 12 ss.
[9] Ancora Ciampoltrini 1980, pp. 153 ss.; devo ad Agostino Dani la segnalazione che anche i materiali recuperati dal Gruppo Archeologico di Castelfranco di Sotto in quegli anni nell’area della mensa comunale di Santa Croce sull’Arno, in Via San Tommaso – per la componente d’età ellenistica si veda ora Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2008, pp. 51 ss. – provengono in realtà dagli scavi di Via dei Tavi.
[10] Ciampoltrini 2003, pp. 121 ss.; Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2008, pp. 16 ss.
[11] Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2008, pp. 18 ss.
[12] Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2008, pp. 31 ss.
[13] Cosci – Spataro 2006; Cosci – Spataro 2008; Andreotti – Ciampoltrini – Spataro 2010, pp. 14 ss.
[14] Ciampoltrini 2006, pp. 67 s.
[15] Strabone, V, 5: «[l’Arno] … scende da Arezzo, ricco di acque, non in massa unica, ma diviso in tre rami» ; Cosci – Spataro 2006, pp. 101 ss.; Andreotti – Ciampoltrini – Spataro 2010, pp. 14 ss.
[16] Ancora utilissima la sintesi di Bruni 2005.
[17] Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2008, pp. 23 ss.; per la revisione dell’iscrizione da Podere Trento di Montefoscoli, Maggiani 2009, con la lettura della formula onomastica di vipia herminai; per Montacchita, e per le valutazioni sullo stato della ricerca sino a quel momento, Ciampoltrini – Baldassarri – Bisio 2006; Ciampoltrini – Baldassarri 2006, pp. 17 ss.
[18] Ciampoltrini 1995, p. 64, fig. 4, 1-3.
[19] Ciampoltrini 2007, pp. 70 ss.; Maggiani 2008.
[20] Ciampoltrini 2006, pp. 61 ss.
[21] Ciampoltrini – Cosci – Spataro 2007, pp. 109 ss.
[22] Ciampoltrini 2007, pp. 19 ss.
[23] Ciampoltrini 2005 a, pp. 35 ss.
[24] Attività di tutela condotta nell’ambito del progetto di costruzione del Nuovo Ospedale di Lucca e della correlata viabilità di accesso; l’opera di documentazione, coordinata da Elisabetta Abela, sotto la direzione scientifica dello scrivente, ha visto lo straordinario impegno – oltre che della stessa Elisabetta Abela – di Serena Cenni, Maila Franceschini, Patrizia Laconi, Silvia Nutini, e delle maestrenze dell’impresa Del Debbio, appaltatrice dei lavori.
[25] Da ultimo Ciampoltrini 2007, pp. 82 ss.
[26] Comodamente accessibile il lavoro di Gray – Harding 2007, con eccellente sintesi di tutti gli aspetti di questa struttura fluviale, anche negli aspetti ecologici.
[27] Per la tipologia, infra, figg. 26-27; 38; Grassini, in questa sede.
[28] Per questa Ciampoltrini 2007, pp. 106 ss.
[29] Ricerche 2010, nel quadro delle attività archeologiche propedeutiche alla costruzione del Nuovo Ospedale, condotte sotto la direzione dello scrivente e affidate alla Cooperativa Archeologia.
[30] Supra, nota 25.
[31] Ciampoltrini 2007, pp. 34 ss.
[32] Scavi condotti con la collaborazione della Polis S.p.A., proprietaria dell’area, e affidati a Elisabetta Abela e Susanna Bianchini, sotto la direzione scientifica dello scrivente, con la collaborazione di Serena Cenni e Maila Franceschini.
[33] Ciampoltrini c.d.s.
[34] Ciampoltrini 2007, pp. 21 ss.; infra, fig. 35.
[35] Ciampoltrini – Baldassarri – Bisio 2006, pp. 67 ss.
[36] Ciampoltrini 2005 b, pp. 14 ss.
[37] Ciampoltrini – Notini 1985, pp. 71 ss.
[38] Ciampoltrini – Catani – Millemaci 2006, pp. 47 ss.
[39] Bruni 1998, pp. 121 s.
[40] Ciampoltrini – Catani – Millemaci 2006, pp. 57 ss.
[41] Ciampoltrini 2007, pp. 54 ss.
[42] Si rinvia per i riferimenti bibliografici a Ciampoltrini 2007, pp. 54 ss., che si ripete ampiamente in questa sede.
[43] Per la distinzione delle forme si fa riferimento alla sintetica tavola dei tipi presentata da Ciampoltrini 1993; per l’analisi delle forme, vedi anche Grassini, in questa sede.
[44] Per questa Ciampoltrini 2003, p. 118, tav. 22.
[45] Rimane, con decorazione stampigliata con la figura di un quadrupede gradiente a sinistra, con coda serpentiforme (cane o leone), solo un frammento di ceramica d’impasto rosso, destinata all’immagazzinamento (Ciampoltrini 2007, p. 60, fig. 41).
[46] Ciampoltrini 2007, p. 63, nota 36.
[47] Per buna presentazione analitica di questa classe ceramica si veda Grassini, in questa sede.
[48] Ciampoltrini 2007, pp. 65 s., con i riferimenti bibliografici.
[49] Per le valutazioni cronologiche, Ciampoltrini – Baldassarri – Bisio 2006, pp. 67 ss.
[50] Si attinge in questa sede alla relazione di scavo di Elisabetta Abela e Susanna Bianchini, con le quali – assieme alle loro collaboratrici – si auspica di poter tempestivamente fornire l’edizione sistematica dell’intero ciclo di ricerche archeologiche nell’area dell’antica Officina del Gas di Lucca, che hanno messo in luce, oltre a quelle di cui si offre in questa sede una prima sintetica presentazione, stratificazioni medievali, le strutture di un bacino portuale d’età moderna, riconducibile al complesso del Porto della Formica, e, soprattutto, ampi settori dell’ottocentesco impianto per la produzione del gas illuminante.
[51] Supra, nota 31.
[52] Supra, nota 34.
[53] Ciampoltrini et alii 2000, pp. 256 ss.; Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2008, pp. 16 ss.

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