La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

mercoledì 30 giugno 2010

Castelfranco di Sotto nel Medioevo. Un itinerario archeologico



Poco da dire, poco da aggiungere, il materiale è ampiamente in rete, per chi volesse sapere tutto (o quasi) sull'archeologia medievale di Castelfranco di Sotto, forse dieci persone al mondo, forse nessuno, oltre ai protagonisti del libro. Ma grazie al Sindaco e all'Assessore (-a), occorre dirlo, e senza troppi piagnestei, il libro c'è ... e chi lo vuole, non ha che da attendere le magiche Notti dell'Archeologia, più o meno il 16 di luglio, torride notti in cui un libricciolo in carta avorio e con copertina finto-manoscritta farà conoscere il passato medievale di Castelfranco, il castello che fu dei Lucchesi e poi dei Fiorentini, ma soprattutto dei Castelfranchesi, sull'Arno e nella Terra dei Due Fiumi. Il verde e il nero della maiolica arcaica degli anni perduti di una gioventù dimenticata, i colori del Quattrocento, le mura perdute e la piazza del Comune ritrovata, tutto in centododici pagine, per trecento grammi di peso, per cinquecento copie.

sabato 26 giugno 2010

Cucire Atti, tessere copertine



Cucire atti per gli occhi stanchi dell'archeologo viaggiatore correttore di bozze impaginatore scavatore mediatore di beghe, tessere copertine con gli occhi di smeraldo delle Ninfe dell'Antro di Peccioli ... un inizio di estate che fa rammentare il passato e gli amici di quel giorno che più non ci sono, e non lascia molte attese per il futuro all'archeologo dagli occhi stanchi, anche se la gioventù pullulante ogni giorno regala nuove schegge del passato, a colori o in bianco e nero o nel seppia devastante del sole a picco.
Monastica è la veste, che piace al professore di Udine e al migrante ligure che ha visitato tutte le sponde del Tirreno, e si spinge sino all'Africa e oltre. Forse perché le Ninfe dell'Antro v'hanno incastonato l'agontano della Pieve, con il Santo e la Croce che brillano sul raro argento di povere terre devastate da guerre e da pesti; e spicca il povero piatto con cui i nobilotti delle campagne toscane supplivano alla mancanza di argenti e peltri. Ma per leggere del castello del vescovo e dei Gambacorta, bianco di pietra e rosso di mattoni, occorrerà che dai metallici rotoli escano pagine variopinte. L'estate sta maturando, con il grano tardivo e il primo riso (cereale, beninteso).

venerdì 25 giugno 2010

I segni della storia infissi nella terra




È appena essiccata la terra inondata tre giorni fa, fra i rami infiniti dell'Auser che muoiono e rinascono, soppressi dall'uomo, irrigiditi in canali ma ancora capaci di insorgere contro misure e ai vincoli.
Il primo sole d'estate è rapido a far pietra dell'acqua, occorre sapienza occorre pazienza per scoprire, in argille cementate, remoti segni della storia. Ci si stupisce, ma non troppo, quando su interfacce figlie del caso, nell'ordinato caos di un cantiere in cui l'archeologo s'allea e confligge con la 81/08, e affronta il suo destino di cavaliere con elmo e corazza, la lancia è la mestola, appaiono frammenti neri, polverosi, sullo sfondo abbacinato dal sole a picco, spolverato dai venti di tutti i quadranti, con schemi incisi e puntinati.
La prima civiltà dell'Auser, ossessivamente cercata venti anni fa qualche chilometro più a valle, trovata infine con antichi compagni di uno scavo perso nel cuore verde della Terra dell'Auser, e ora così facilmente (si direbbe) trovata in una periferia urbana macchiata di capannoni sfatti e villette pulite. È faticoso ritrovare la capanna delle urne in questo paesaggio, il gazebo che tutela archeologhe affrante è una inutile metafora di una storia di dusemilaottocento anni fa.

domenica 13 giugno 2010

Sotto il segno di Faolfo (e di Santa Mustiola): dalla Valdera a Chiusi e viceversa



Dovunque appare a Chiusi, nei primi giorni dell'estate fervida in Val di Chiana come nel Valdarno, il truce segno del Signore dell'Anello, il bel calembour della Signora d'Austria e Neustria. Cercato dalle pagine del CIL, visto in sogno, seguendo bande di guerrieri longobardi a far preda ed estorcere 'sussidi', in anni lontani, mentre il dotto tedesco lo recuperava nei fondi del museo dove, trovato, era stato subito risepolto.
Luce l'intreccio di ellissi, la barba puntuta di Faolfo, e si rinnova, per dar sangue alle pagine di Gregorio e di Paolo, e alle cronache degli anni di Maurizio imperatore, l'illusione di Castelfalfi, sulla strada da Lucca a Roma per la Valdera e Chiusi che per primo seguì Faolfo, per ultimo Ottone imperatore con la corte, estate del 964; era già pronto il passaggio sull'Arno voluto da Cadolo (forse). Faolfo da Lucca a Chiusi, per la Valdera, quel tratto dove a Santa Mustiola appassionati amici del passato hanno trovato il segno degli anni suoi, vasi a listello e olle con il giusto profilo del labbro, l'esatto tono dell'impasto, a segnare gli anni di un VI secolo ormai familiare.
E assai familiare è il secolo VI ad amici ritrovati e amici nuovi che convergono a Chiusi, in un raro giorno di festa per l'archeologia, a celebrare le fatiche di una studiosa che ritrova la propria storia in parole remote, in suoni crudi relitto di vite diverse. I pici sono segno della storia non meno delle parole longobarde nutrite di suoni schioccanti, in queste colline dove al truce volto di Faolfo presto si sovrappone il delicato sorriso, sfumato, un po' attonito, di Santa Mustiola, elegante come le Sante Dame dei mosaici di Ravenna, si vorrebbe.
E il viaggio a ritroso, da Chiusi alla Valdera, a segnare del sorriso della Santa il punto d'unione fra i beni di Sesto e il segno di Lucca e il segno di Chiusi e i beni di non si sa chi. Le strane vie della vita, come le vie perdute del VI secolo, che l'archeologo e l'erudito s'illudono e si convincono di aver ripercorso.

venerdì 11 giugno 2010

Facciamo il Comitato per il 2166° anniversario della Battaglia del Vallimona (in esametri pseudo-oraziani)




La commozione è forte, si agitano i generosi lottatori
contro gli altrui tagli. Ognun loda, ognun taglia,
diceva il poeta che Pascolando vedeva l'Auser dall'alto,
e da un punto mezzano, e i suoi eredi, più o meno nello stesso castello,
non passa giorno che non si lagnino dei tagli,
loro che con frecce scagliate da un Arcus potente
inondavano d'oro la Terra dell'Auser;
seppur le frecce scagliate dovunque si spandevano,
ma non nel Sacro Casello che apre le Terre dell'Auser.
I castelli dell'Auser han le mura d'oro rivestite,
anche se chi passa sotto non se ne accorge più che tanto,
e un Sindaco Estroso e un Archeologo Matto han dovuto fare
mattane perché il Sacro Cerchio della Fanciulla di Vagli
e il Tesoro della Fanciulla uscissero dalle tenebre
della terra che li impastava, e l'argento della fibula rifulgesse.
Ma ci sono riusciti, con Rita e Paolo, e lontano dalle frecce
di Arcus, indifferenti ai tagli che non possono colpire
chi nulla ha mai avuto, dei congiaria di senatori amici dell'imperatore eletto dalle legioni della Belgica.
Grazie, miracoloso Volto Santo che talora soccorri anche i miseri.
L'Archeologo Matto, inondato di petizionionline a favore
di chi ha duecentomila euro di stipendio l'anno, i ducenari
delle Megadirezioni, di chi ne ha centomila, i centenari
delle risorse di seconda fascia, eccetera eccetera, fino
alla sportula dei clienti
che passano ogni mattina a prendere la baguette dell'anniversario
di stagione (quanti, come son fitti gli anni: San Carlo
Ludovico, San Mario, San Tobino ... e meno male che si sono
dimenticati il Santo dei Farmacisti, nella Capitale dell'Auser),
scruta scruta il calendario. Ma dei centocinquant'anni del vir magnificus
di Santa Giulia non caleva alcunché a nessuno (il bonton lo impone).
Si potrebbe sparare un 2011 duemiladuecentesimo anniversario
della quarta spedizione di Caio Gregorio, er Guardiano del Pretorio,
fra Lima e Turrite, correva l'anno del signore ancor non nato
189 a.C. Forse qualche freccia di Arcus è ancora sepolta lì, con le ghiande
missili dell'ultima battaglia del Vallimona, l'ultima incursione
degli Apuani. Siamo più o meno al 155 a.C., un bel Comitato
per i Festeggiamenti Paesani in ricordo della Battaglia
del Vallimona forse troverebbe un bel successo mediatico,
un bel contributo, la simpatia di qualche deputato di Montagna. Proviamoci,
Comitato per la Celebrazione dei duemilacentosessantasei anni
Battaglia del Vallimona. Magari chiamiamo anche Spike Lee, se è ancor
da quelle parti, la Santa Regione che Nulla nega a nessuno,
neppure un bel viaggio in Siria agli studenti di archeologia bramosi
di nuove esperienze, ma nega loro i dindini per lavorare nei torridi
musei della Terra del Ragazzo Triste, nato dove i Quattro Fiumi
s'incrociano e la Nebbia rende tristi, in quell'intreccio di ponti,
troverà risorse minacciate di Tagli Tremendi del Tagliatore Terribile.

venerdì 4 giugno 2010

Le sottili gioie della passione (archeologica), tra Pisa Sicilia Alica




Si fondano sul verde non si sa se di smalto o di vetrina le stupende sequenze di colori che la meravigliosa archeologa del muro ha disegnato da uno scavo che si perde nel cielo azzurro della Valdera di giorni tanto vicini ma perduti per sempre, come molti degli amici di allora, quando tutto si credeva possibile, da quella parte dell'Arno (come dicevano gli scrivani del Vescovo di Lucca).
Le salite al castello, i muri denudati di bianco e di rosso, sotto affreschi cadenti, dal fascino triste della mesta allegria dell'Ottocento: Alica ritrovata, la rocca superiore, il palazzo del vescovo, sogno effimero di un potere sbilanciato ormai, troppo più potente l'armata ghibellina e imperiale di quella parte d'Arno, dove non sempre potevano giungere pedoni e cavalieri della guelfa Firenze a salvare le sorti lucchesi.
Dal sogno irrobustito di severe stratigrafie, dall'anelito alla perfezione dell'archeologa severa (l'archeologo tira un po' via, non ha tempo per le meraviglie della vettorializzazione), all'enigma del coccio fondante, tutto coperto di un verde islamico, forse in terre da cui l'Islam stava partendo dopo secoli di dominio. Si tormenta nella sua ascesi l'archeologia stratigrafa e strutturologa, se porre di qua o di là dal segno fissato dalla cavalcata del 1175 il palazzo che la sua finezza ha colto e disegnato sotto muri che hanno visto le sofferenze di generazioni di mezzadri, la protervia di fattori, la sicurezza assente e distratta di monaci e di possidenti cittadini. Il primo fu il vescovo, a porre un visibile segno del suo dominio quasi al confine della sua diocesi, in terre ricche, conquistate dai Longobardi negli anni dei suoi predecessori di sei secoli prima. Ma quando, prima o dopo la cavalcata? S'impegna l'antico percorritore di Valdera, che ha dovuto aspettare gli anni della senescenza per vedere strati dove da giovane aveva visto solo smosse ceramiche e dilavate sequenze; e ora che c'è riuscito, l'enigma che si concentra sul coccio verde che dà colore e dovrebbe dare anni a smunti impasti che galleggiano nelle misere cucine del Duecento o un po' prima o un po' dopo.
Alica, Alica, il castello ritrovato e letto prima di divenire sede di vacanze, nuova forma del potere e della sofferenza, il demos (forse grasso) che s'appropria dei segni di dominio di un'aristocrazia esangue.
E infine, dovo aver vagato per libri e libri, non troppo perché la stampa urge, la ricerca porta all'antica amica di Pisa, Graziella, la maestra suprema di ogni ceramica venuta da Oriente e Occidente in Toscana negli anni delle Crociate, e anche prima.
Sarà di Sicilia, degli anni del Barbarossa o di Federico II, il coccio verde della scodella con tesa confluente, appena inciso da una rotellatura che lo avvicina (si direbbe in gergo) a opere gelesi, a un raro inserto nelle architetture pisane?
Si teme che l'archeologa stratigrafa e l'archeologo pergamenofilo dovranno rimanere inerti davanti alla domanda atroce: ma le mura bianche e rosse della rocca superiore di Alica, il castello del vescovo, preso dai Pisani e riconsegnato il 1° dicembre 1175, videro o non videro la cavalcata di Ildebrandino console di Pisa e della congrega lucchese?

mercoledì 2 giugno 2010

Le meraviglie dell'archeologia di Lucca, soprattutto romana; ovverosia, un invito «Visit Roman Lucca, please, visit» (un po' trombonesco)











Giulio Ciampoltrini

Le città sepolte: storie ritrovate di Lucca

Il sobrio Rinascimento dei palazzi pubblici e privati, con il nitore della facciata di San Paolino e la misurata forza delle cortine e dei bastioni, coniugato ai giochi di luce e di colore delle facciate delle chiese romaniche, impreziosite dalle tarsie di pietre policrome: questo è il volto con cui Lucca si presenta e si voleva presentare già dal Cinquecento; la sintesi suprema è nel sorriso perduto di Ilaria del Carretto, un Rinascimento che ha ancora i sapori del Medioevo.
Ma da questa veste austera, come la volevano i Lucchesi del Medioevo e del Rinascimento e come forse anche quelli di oggi, erompe qua e là un passato da non dimenticare: violento nel segno dell’anfiteatro, esaltato dalle finezze neoclassiche del Nottolini, ma percepbile soprattutto nella forza delle archeggiature di marmo, pietra, mattone che danno il segno del monumento flavio, coevo al Colosseo, versione municipale delle costruzioni dei Cesari; noto solo a qualche appassionato che abbia voglia di addentrarsi nelle vie minori nei ruderi del teatro, denudati da recuperi degli anni Cinquanta del secolo scorso.
Ma la città sepolta – o meglio, la sequenza di città sepolte – sotto le pietre medievali o gli intonaci e gli stucchi del Cinquecento dà i suoi segni soprattutto nell’ordito urbanistico, nella ritmata sequenza di isolati rettangolari e quadrati che fu voluta dai fondatori e che, divenuta da rigida struttura un duttile gioco di forme, è ancora il vincolo del cuore della città, ripreso con diverse misure nei quartieri di fondazione cinquecentesca.
Città sepolte, perché la sepolta Lucca romana, riemersa in trent’anni di scavi eterogenei, onnivori, figli della tutela e (quasi) mai dell’amore per la storia sepolta, si è rivelata sequenza di diverse città.
La prima, è la colonia Latina, la città voluta come fortezza ai confini dell’Italia da Roma, dopo aver sottomesso i Liguri, a pena di venti anni e più di guerre, in allenza (societas) con la città etrusca di confine, Pisa, forgiatasi a madre di guerrieri – come rammenta Strabone – nel lungo conflitto con i Liguri; un conflitto voluto più dall’egemonismo romano (come ci hanno insegnato gli scavi del Romito di Pozzuolo o di Ponte Gini di Orentano) che da una contrapposizione etnica largamente estranea al mondo antico. Volto di pietra – il bianco del calcare delle cave dei Monti Pisani coniugato ai toni caldi del travertino di Rigoli – per le mura, le porte, le torri erette dai fondatori, nel 180 a.C., ritrovate da Daniello de’ Nobili ai primi del Seicento in una romanzesca periegesi di cantine e trovamenti quando Lucca stava per completare la nuova cerchia rossa di mattoni e bianca di stemmi, di leoni, di statue di Santi protettori; volto di pietra per una città che lentamente si copre di monumenti e luoghi pubblici, di case (domus) ornate di pavimenti e fregi in laterizio degni della migliore Italia municipale.
La seconda Lucca, la città trasformata dai coloni mandati da Augusto, i veterani di due legioni delle atroci battaglie della seconda guerra civile, da Filippi a Azio, il torbido decennio fra il 41 e il 30 a.C.; benignati dal loro imperator di terre e di nuovi monumenti. L’ara di Piazza San Michele in Foro, momento supremo delle memorie di Lucca romana conservate nel silenzio ovattato d’ombre del Museo Nazionale di Villa Guinigi, era al cuore del complesso templare che una singolare e fortunata sequenza di scavi permise di ritrovare fra 1987 e 1990, con il colonnato segnato dai miseri resti di un criptoportico che incoronava il tempio ricco di marmi ispirati ai monumenti voluti a Roma da Augusto per rammentare la forza serena del suo potere. L’ureo che guizza nella corona della Gorgone ‘cita’ la recente vittoria su Cleopatra, l’Egitto condotto sotto il segno di Roma e dell’Italia.
Teatro e anfiteatro, i luoghi pubblici ‘per eccellenza’ della città romana – con le terme – sono la reliquia della seconda Lucca per la città che percorriamo, capaci di sopravvivere, con la massa delle strutture cementizie, anche alla fame di pietra della città dei secoli bui, bui come il colore degli strati che dal VI secolo in poi si avvicenderanno alle spoliazioni per rigenerare la città comunale.
Ma prima di arrivare alle storie della città cristiana, una terza città romana si dipana nelle storie raccontate dallo scavo. La crisi del II secolo d.C., certo inavvertibile per chi si lascia trascinare dalle affabulazioni del Gladiatore, morde pesantemente l’Italia, come ben sanno gli archeologi (e anche gli storici che seguono il filo delle iscrizioni, senza cedere alle Sirene di panegiristi e celebratori di regime). Lucca non è eccezione, con macerie e scarichi che si accumulano qua e là nelle strade, nei monumenti pubblici, nel foro stesso, seppelliscono case e in qualche felice circostanza ce ne conservano pavimenti e murature.
Lo scarico delle anfore di un vinaio all’angolo del foro, con i segni del vino di Toscana (nelle anfore empolesi), della Romagna (nella anfore dette ‘di Forlimpopoli’), e d’Algeria (le cosiddette ‘mauretane’) e gli scarichi di cocci finiti nella domus che ornava quello che è oggi l’isolato che affaccia su Piazza San Martino, sono i segni supremi di questa fase critica, dalla quale Lucca esce ritrovando, quasi cinque secoli dopo, il ruolo di città fortezza, presidio di un crocevia di strade militari che da Roma portano all’Italia settentrionale e costeggiano di qua e di là l’Appennino.
Le antiche mura sono rimesse in efficienza, le lacune risarcite, nuove torri si aggiungono alle antiche, adatte ad affrontare le nuove occasioni d’assedio che le frontiere non più tutelate concedono alle bande di incursori germanici. Forse fu davvero l’imperatore Probo (276-282 d.C.), come raccontava una perduta iscrizione vista da Daniello e dagli eruditi lucchesi del Seicento, a volere che la città allo sbocco dei valichi appenninici fosse ricondotta al suo antico ruolo, su una via per Roma divenuta talmente comoda per gli invasori, che anche la Città Eterna si era da poco affidata non più o non solo alla forza delle legioni di frontiera, ma anche ad una potentissima cerchia di mura, negli anni di Aureliano, il predecessore di Probo.
È la città delle mura e di Probo, divenuta sede di metallurghi al servizio dell’esercito (gli spatharii) a far da culla alla nuova religione, che in Lucca trova presto sede fra i resti di perduti monumenti pubblici – forse delle terme – adeguando una sala provvista di giochi d’acqua a Battistero, e erigendo su altre il ‘luogo pubblico’ del Cristianesimo costantiniano, la basilica cattedrale.
Dai mosaici sopravvissuti – come la sequenza di città antiche – alla vita medievale, rinascimentale, contemporanea di Lucca, che proprio in questi giorni della primavera 2010 hanno ritrovato la forza dei colori voluti dai costruttori (forse il vescovo Massimo noto da un documento dell’anno 343) che può iniziare un viaggio nelle città sepolte sotto Lucca che non sia solo sui libri che di recente hanno tentato di raccontarla, ma viva i luoghi e i segni del passato.
La chiesa dei Santi Giovanni e Reparata, con il suo viaggio nella storia sepolta della città che inizia con la discesa dai volumi medievali della chiesa, ingentiliti dai colori degli altari del Rinascimento e del Settecento, è il luogo migliore per avvertire, nell’intreccio di muri e nella sovrapposizione di pavimenti, le ‘metamorfosi’ di Lucca romana.
I battuti cementizi decorati di inserti in pietre policrome, o monocromi, della città dei fondatori; le basi di colonne e i lacerti di rivestimenti marmorei di un edificio pubblico (forse le terme) riemersi sotto la cripta che ospitò le reliquie di San Pantaleo, intorno all’anno Mille; zigazagare guidati da nuove fonti di luce sulle passerelle che guidano ai lembi dei mosaici della cattedrale del vescovo Massimo: una stupefacente passeggiata nella storia di Lucca, da vivere senza l’ansia di capire fasi e sequenze, perché anche l’archeologo che ha passato anni e anni a sviscerarne i misteri, seguendo storie parallele di altre città, e ogni tanto anche la fantasia, non sempre riesce a ricomporre in forme compiute i relitti del passato.
E giungere poi, affrontando coraggiosamente l’affascinante Lucca dell’espansione cinquecentesca, con i decorosi palazzi degli aristocratici che si alternano alla sequenza di dimore dei ‘ceti produttivi’ (come si direbbe oggi), fino alla villa suburbana di Paolo Guinigi, dove nell’asettico ordine dei musei è possibile partire dai segni degli Etruschi e dei Liguri per entre nelle memorie di Lucca romana, entrare anche nella suggestione di volumi e colori perduti, che in un angolo di museo si è tentato di ritrovare.
Il Museo della Città, sognato in un attimo da archeologi bramosi di far partecipare alle fonti dei loro sogni, come è nella natura dei sogni si sta dissolvendo al far del giorno, lasciando talora il retrogusto dell’incubo; e gli archeologi continuano a scendere nelle cantine, perché i colori delle città romane sepolte sotto le strade e i palazzi di Lucca possano di nuovo illuminare il passato.

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