La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

venerdì 30 ottobre 2009

Il Sacro Cerchio della Fanciulla di Vagli




Lungo è il viaggio per Vagli, abbastanza da seguire il filo di quasi trent'anni di risalite della valle, e il filo delle pagine di Livio, quando si arriva al punto in cui le Panie – eruditamente Apuane –  scattano verso il cielo dal febbricitante fluttuare delle foglie morenti. Lotta strenua per dare un'immagine pulita del Sacro Cerchio che Paolo (e Silvio) hanno lustrato, dopo che il Caso, il Cercatore di Funghi, il Sindaco Estroso, in un autunno passato avevano trovato la Tomba della Fanciulla, come ci ha insegnato una dotta antropologa,
la bambina che si era portata con le sue ossa semicombuste tutte le dotazioni delle donne di famiglia, cinture, collane, fibule. Una tomba sacrario, forse innalzata quando ormai le coorti romane cominciavano la caccia inutile e feroce ai Signori della Montagna, col cerchio esagono di massi di marmo splendidamente bianchi nel sole del mezzogiorno, e la lastra che segna il Mistero. O piuttosto l'Ignoto, per l'archeologo che tutto vorrebbe capire, o conoscere. E invece gli Apuani di Vagli ci hanno lasciato il più prezioso segno che l'archeologo possa cercare, il Segno del Mistero. Popoli di montagna noti da qualche muretto esplorato quando salire per le mulattiere non era vietato da anni e norme, da tombe descritte nei secoli passati, dalla retorica bolsa e ripetitiva di Livio; e ora anche dal Cerchio con la Lastra, posto sul crocevia di immaginati sentieri di montagna. E forse Livio non era solo retorico, quando rammentava il pianto degli Apuani deportati per le dimore antiche della loro stirpe, per le tombe non più rispettate, sull'intreccio di vie dalla valle al mare, e al cielo.

lunedì 26 ottobre 2009

C(aius) Calvius C(ai) f(ilius) / T(itus) Lurius T(iti) f(ilius) IIvir(i)


Ritornano dal passato scene remote: il thesaurus di C. Calvius e C. Lurius, i duoviri di Luni, e i calcinacci finiti dove i devoti davano segno della loro devozione, ritrovati venti anni fa, e ora di nuovo visitati... l'angolo del giardino del Museo, la polvere, il mammozzo di marmo, con l'iscrizione che il ductus riporta ad anni difficili, con i nomi dei duoviri scomparsi nella novella Luni augustea e la cavità che ne svela la storia. Fatiche ed entusiasmi che illuminano di passato qualche minuto,  con l'interesse di nuovi studi; dalla impeccabile pagina del Dictionnaire ai fantasmi di Google (che sotto thesaurus è però deludente). Per fortuna qualche volta bisogna alzarsi dalla sedia, cercare il libro, tastare la polvere dell'incisione, per riconoscere l'arcaico sapore di un'iscrizione tardorepubblicana, perduta, ritrovata, ridimenticata, capace di dare spessore alla passione di un giovane archeologo, che non sa il tedesco ma va pellegrino dietro ai sogni dei suoi studi, come qualche altro tanti anni fa.

sabato 24 ottobre 2009

«King Arthur» a Capraia (Isola)




«King Arthur»: la solitudine del guerriero, tra fedeltà al capo e al corpo, e senso dell'inutilità del lavoro; aristocrazie incapaci di capire gli eventi; un clero che si celebra nel luccichio dei mosaici e nell'esaltazione degli spazi absidali ... e masse che appaiono sbiadite, vittime destinate tuttavia a sopravvivere ai loro carnefici. Gli scenari tardoantichi vivono anche negli accumuli di cocci in capanne tracciate da tre buche di palo, oltre che nelle pagine della Patrologia, e in testi perduti in edizioni arcaciche, che ora Google ci fa leggere con tre tocchi di mouse.
Qualche volta capita che testi e testimonianze dalla terra si intreccino, si esaltino, esaltino l'archeologo, finalmente fortunato tanto da poter tentare il romanzo storico. E certo la storia del Franco (o Alamanno: con buona pace di von Rummel, che tedeschizza i Romani) morto a Capraia, sepolto con la sua spatha e le cinture, indurrebbe al romanzo storico, fra le battaglie navali di Idazio, i torbidi romani di Giovanni di Antiochia, la soldatesca al servizio (talvolta davvero devoto) di imperatori conosciuti soprattutto nei solidi dello stipendio.
A Capraia questo accadde, venti o quasi anni fa, ed ora rivivere antiche emozioni, ala luce dei nuovi eventi, è suggestivo.



Dagli Atti per Livorno, appena spediti:

La tomba del miles di Capraia, e le rotte del Tirreno settentrionale intorno al 450 d.C.

Capraia svolge un ruolo cruciale nella spedizione ‘africana’ del 397: i monaci imbarcati a Capraia nel viaggio verso l’Africa iniziato dai navalia di Pisa sono sì ignorati da Claudiano – pur così efficace nel magnificare i preparativi della spedizione e nel proporci forse la più puntuale descrizione della rotta dall’Etruria settentrionale all’Africa, puntando sulla Corsica e seguendo poi le coste della Sardegna – ma assurgono nella narrazione di Orosio a protagonisti del successo ‘lealista’ su Gildone: «igitur Mascezel, iam inde a Theodosio sciens, quantum in rebus desperatissimis oratio hominis per fidem Christi a clementia Dei impetraret, Caprariam insulam adiit, unde secum sanctos seruos Dei aliquot permotos precibus suis sumpsit: cum his orationibus ieiuniis psalmis dies noctesque continuans sine bello uictoriam meruit ac sine caede uindictam».
È possibile che il crocevia delle rotte del Tirreno settentrionale segnato da Capraia sia stato frequentato anche nei tormentati eventi dell’ascesa al trono imperiale di Avito, e del suo precario regno, fra 455 e 456. L’arrivo a Roma dell’eterogenea armata raccolta da Avito in Gallia, con quel che restava dell’esercito imperiale e foederati germani, se gli dava la possibilità – grazie anche al sostegno di Costantinopoli, assicurato dal tempestivo riconoscimento da parte di Marciano – di chiedere risolutamente a Genserico il rispetto del trattato del 442 (peraltro senza successo), prospettava alla capitale, attanagliata dalle difficoltà dell’approvvigionamento alimentare, i seri problemi affrontati con le soluzioni radicali ricordate da Giovanni di Antiochia.
È in questi frangenti che le acque del Tirreno settentrionale tornano a conoscere, dopo secoli e secoli, una ‘battaglia navale’ che ricorda, per connotazioni strategiche, quella di Alalia.
Idazio Lemico (Continuatio Chronicorum, II, 2) è un asciutto cronista dell’evento: «Hisdem diebus Rechimeris comitis circumventione, magna multitudo Wandalorum, quae se de Carthagine cum LX navibus ad Gallias vel ad Italiam moverat, regi Theudorico nuntiatur occisa per Avitum. Hesychius tribunus legatus ad Theudoricum cum sacris muneribus missus ad Gallaeciam venit, nuntians ei id quod supra, in Corsica caesam multitudinem Wandalorum, et Avitum de Italia ad Gallias Arelate successisse».
Il successo di Ricimero sulla flotta di sessanta navi partite dall’Africa vandala per saccheggiare le province imperiali (Gallia o Italia), seguendo il ‘ponte’ proposto da Sardegna e Corsica, avviene dunque – nella primavera del 456 – intercettando la spedizione ‘africana’ nella acque della Corsica, punto di partenza ideale per nuove incursioni.
Nel 1988 l’architetto Boccanera, ispettore onorario per Capraia, riuscì a recuperare un complesso tombale che si è tentato di collegare a questi eventi. L’inumazione emersa da lavori pubblici in Via dell’Assunzione a Capraia Porto, nell’area dell’insediamento d’età imperiale oggetto di un’efficace serie di saggi diagnostici (fig. 1, B), è ben datata nei decenni centrali del V secolo d.C. dalla suppellettile che accompagnò il defunto nella sua ultima dimora: le fibbie policrome ‘con alta placca rettangolare’, delle cinture di sospensione della spatha e del coltello (fig. 2), e la stessa spatha, attribuibile – grazie in particolare alla placca di rivestimento del fodero (fig. 3) – alle manifatture imperiali attive nella Gallia settentrionale .
La rilettura del complesso condotta recentemente da von Rummel , fondata solo sulla sintesi del ritrovamento presentata in Archeologia Medievale del 1992 , convalida sostanzialmente la proposta di datazione, seppur spostandola genericamente alla seconda metà del secolo; aggiunge poi valutazioni che, recependo (senza peraltro citarle) annotazioni già sviluppate sui centri manifatturieri delle dotazioni del defunto, propongono una non necessaria ‘banalizzazione’ del dato di Capraia, che per essere compiutamente funzionale alla sua tesi finesce per elidere lo scenario in cui la Capraia del V secolo d.C. si poneva. Si era già ampiamente osservato , in effetti, che tanto le fibbie quanto le armi sono prodotti delle fabricae imperiali, plausibilmente della Gallia, ma è altrettanto evidente che l’uso di dotare il defunto della suppellettile bellica non è affatto pratica comune dell’Italia del V secolo, anzi, è caso del tutto eccezionale, rispetto alla fitta serie di deposizioni di ‘militari’ di questi anni, attestata dalle iscrizioni funerarie. Per rimanere in ambito regionale, sarà sufficiente ricordare i sepolcreti di Firenze-Santa Felicita e Arezzo-Duomo Vecchio, caratterizzati da una cospicua serie di deposizioni di militari.
Continua dunque a sembrare ragionevole che il militare dell’esercito imperiale morto nel 450 d.C. o poco dopo a Capraia avesse conservato nella tomba i costumi funerari ‘nazionali’, franchi o alamanni: Francus ego cives Romanus miles in armis, come precisa un’iscrizione di Aquincum (CIL III, 3576). D’altronde è difficile pensare che nelle truppe di Ricimero spesseggiassero Romani, e che questi fossero pronti ad emulare non solo l’habitus barbarus del vestire (ipotesi plausibile per l’alto ufficiale del ‘dittico di Stilicone’), ma anche del costume funebre.
Queste valutazioni, tuttavia, poco aggiungono al ruolo di Capraia nelle rotte del Tirreno settentrionale che comunque risalta dalla presenza di un militare (forse non di rango subalterno), sia questi caduto nella battaglia navale della primavera del 456, o appartenesse ad un distaccamento dell’esercito imperiale, collocato su una ‘sentinella’ delle rotte tirreniche alla quale la presenza dei monaci conferiva uno speciale rilievo.
La vitalità della via di mare dalle coste del Tirreno settentrionale all’Africa, passando per Corsica e Sardegna, riferita da Claudiano, negli anni delle incursioni vandaliche in Italia ha trovato un ulteriore indice nel ripostiglio di minimi enei dalla foce dell’Osa (Orbetello), oggetto di una recente edizione . La presenza di una moneta ‘protovandala’, e le stringenti analogie del complesso con altri coevi dell’Africa settentrionale, attestano anche archeologicamente la continuità dei rapporti fra l’Italia tirrenica e l’Africa, verosimilmente lungo la rotta che, integrando la narrazione di Orosio con quella di Claudiano, risalta dagli eventi del 397, fino alla metà del secolo e alla crisi che comunque dovette seguire gli eventi del 455, con il ridimensionamento dei traffici fra le coste dell’Etruria e l’Africa che emerge dal dato archeologico, e la trasformazione del sistema di insediamenti – con la formazione di insediamenti su alture protette a tutela degli approdi – che è stato da tempo descritto nell’ager Cosanus.

Bibliografia

Asolati M. 2006, Il ripostiglio di Camporegio (Grosseto). Note sulle imitazioni bronzee di V sec. d.C. e sulla questione della cosiddetta “moneta in rame nell’Italia longobarda”, Rivista Italiana di Numismatica, CVII, 113-161.
Bedini E., Ciampoltrini G., Ducci S. 1992, Una sepoltura tardo-antica dal Porto di Capraia Isola, Archeologia Medievale, XIX, 369-377.
Ciampoltrini G., Rendini P. 2004, Landing places and trade in the ager Cosanus and at Giglio Island from the mid - to the late imperial age, in M. Pasquinucci, T. Weski (edd.), Close Encounters: Sea- and Riverborne Trade, Ports and Hinterlands, Ship Construction and Navigation in Antiquity, the Middle Ages and in Modern Times, BAR Int. Ser., 1283, Oxford, 85-91.
Ducci S., Ciampoltrini G., Capraia (Livorno). Tomba di un militare tardoantico, Bollettino di Archeologia, 7, 53-59.
Gunnella A. 1994, Il complesso cimiteriale di S. Felicita : testimonianze di una comunità cristiana fiorentina, in A. Benvenuti, F. Cardini, E. Giannarelli (edd.), Le radici cristiane di Firenze, Firenze, 13-32.
Mathisen R.W. 1981, Avitus, Italy and the East in A.D. 455-456, Byzantion, 51, 232-247.
Roberto U. 2005, Ioannis Antiocheni Fragmenta Ex Historia Chronica, Berlin.
von Rummel Ph. 2007, Habitus barbarus. Kleidung und Repräsentation spätantiker Eliten im 4. und 5. Jahrhundert, Ergänzungsbände zum Reallexikon der Germanischen Altertumskunde, 55, Berlin-New York.

lunedì 19 ottobre 2009

Gli anni di Santa Cristiana, gli anni di Segni



Trent'anni da un anniversario all'altro, dalla costruzione del monastero alla gloria dei cieli, o quasi, per la santa/beata nata nelle capanne sulle dilaganti acque dell'Usciana, costruttrice del monastero-città, chiave del successo del castello alla cui costruzione aveva partecipato. Anni difficili, come sempre nel Medioevo, per Oringa, fra guerre di città e guerre di castelli, per qualche pellegrino o qualche mercante da attrarre con nuove vie, nuovi ponti, nuovi monasteri, e con la fama della santità. I documenti del Duecento costruiscono muri perduti, stonacano facciate di un castello che è oggi un qasr, o una qasbah, solleticano idee di affari sul fiume e di devozioni, remote per il laico albeggiare del Terzo Millennio.
Sono di certo i castelli tracciati da Duccio, nel fantasmagorico intreccio di colori, più adatti per l'incedere di Oringa, rispetto alla griglia proposta da trent'anni di ricerche, fosso su fosso, documento su documento, per cercare storie sepolte sotto i campi frequentati da bambino ... e ci si illude che Etruschi e Romani fossero quali qualche coccio, un relitto di strada, l'ammassarsi di studi e di sogni ci propone. Invidia per le carte del monastero, strappate a Firenze, che fanno rivivere le capanne abbandonate per le solide mura castellane che l'archeologo vede come mucchietto di cocci e di sbriciolate lastre d'ardesia ... ma rimane sempre il dubbio che la verità (se esiste, come voleva il procuratore di Giudea) sia sepolta un metro più in là.

giovedì 15 ottobre 2009

Le brave ragazze che sanno cucinare il GIS

Esistono brave ragazze che sulla piatta griglia di Lucca romana, artigianale ricamo di colori dell'archeologo-fai-da-te, han saputo cucinare un delizioso GIS, innervato di mille sapienti spezie, forse ancora un po' al sangue, come la carne alla brace per taluni merita.
Ma l'osteria è elegante, i contorni fini, il piatto appetibile, sul computer servito a domicilio, invitante sul sito che l'archeolo-fai-da-te invidia.
Le metamorfosi della città romana, sepolta e rinata, trovano nuovi spazi, seguendo un puntatore che anticipa risposte e domande ... e le fatiche di venti anni e più, riunite in pallini sensibili, sembrano meno faticose.

domenica 11 ottobre 2009

Devozioni antiche e moderne nella Terra dell'Auser



Sembran remote come quelle per le Ninfe delle Grotte le devozioni della Signora di Mammoli, pur se la medaglia di Santa Caterina Labouré rinnova ancora antiche pulsioni della fede e della speranza. Ma San Giovanni Leonardi, nato dove l'Auser da poco riceve le acque del Lima, e poi divenuto figlio di Lucca, e la sua storia, non commuovono e non esaltano più, nella Terra dell'Auser, come ai tempi della Signora. È poco seducente per il marketing turistico o pseudo-tale il santo di Santa Maria in Corte Orlandini, la 'nera', non ha tele o tavole da muovere, non induce pellegrinaggi dagli Appennini alle Montagne Rocciose, con visita finale alle coste del Pacifico. Chissà, forse i remoti coloni giunti sul Pacifico ricordano ancora qualcosa della terra divenuta ora giacobina senza saperlo, con un'aristocrazia troppo innamorata dei Segni del Potere per degnare i Segni della Fede.

sabato 10 ottobre 2009

I volti di pietra delle città latine, da Cosa a Lucca, passando per Alatri




Sembra veloce il viaggio da Lucca a Cosa, e poi ad Alatri e Ferentino; ma non per l'archeologo che lo percorre cercando i segni del passato, con la pazienza che la povertà gli impone. Non ci sono PIC o PIT o FASL, Arcus o ottopermille, a rendergli comoda la vita; deve attendere il kairos, coglierlo al volo, perché solo di rado si ripresenta. A Lucca tre volte gli è passato davanti: la prima le Vestali archeologhe che lo (il kairos, scilicet) accompagnano erano sedotte dal fascino subdolo dei crani accumulati per cedere alla lusinga dei muri di pietra, ma la seconda e la terza la faccia di marmo della città sull'Auser, figlia dei Latini e degli Etruschi, alimentata dai Liguri già nemici e ora alleati, gli si è rivelata. Senza ermeneuti, cantava Pindaro letto quando il greco non era remoto, non sempre i segni della terra sono eloquenti; e gli ermeneuti sono apparsi nelle terre del Lazio, dove signorotti del paese, centurioni, legionari, temprati da cento battaglie e mille estorsioni, celebrati dai versi di Lucilio, esaltavano le città natie, figlie di Ernici, Volsci, Latini, appollaiate su montagne oggi brulle e un tempo forse ridenti, con lisce pareti di pietre dai cento colori, miscelate con tagli (quasi) perfetti.
Non certo perfetti come nella figlia di Roma e dei Latini, e dell'arte di costruire le città appresa da Seleucia a Demetriade, la turrita corona del poggio che domina laguna e mare, Cosa, finalmente rivelatasi degna rivale tirrenica delle fondazioni dei Diadochi, con il suo tagliente apparato di pietre, di torri e di porte; desolata più da chi vuole ancora rifarla, fra PIC PAC PIT ottopemille ed Arcus, misero erede degli allievi dei maestri ellenistici, che dall'abbandono di cui fu testimone Rutilio.
Dunque, da Cosa a Lucca – le città figlie di Roma, gettate sui confini di mare e di terra di uno Stato fondato sull'inaudita miscela di prepotenza e convenienza che sfidava il povero Polibio – s'inseguono i Segni dell'Ellenismo di confine, nutrito del genio italico – come si sarebbe detto quando la parola 'Patria' non era vituperevole sinonimo di 'Paese' – capace di far proprie lezioni allotrie. Non i Ciclopi, non i misteri calati da arcane ricerche di congiunzioni stellari, ma maestrie apprese e propagate congiungono in intrecci senza fine le pietre poco prima accumulate brutalmente, celebrano città che sono anche macchine da guerra, temibili nella loro eleganza.
I filari di calcare cui le giovani archeologhe volgono le spalle, dopo averli puliti e celebrati, racconteranno storie che vengono da Atene e dalla Macedonia, sono state narrate sul Liri e sul Volturno, hanno esaltato i lettori di Lucilio e di Terenzio. Se solo qualcuno volesse ascoltarle ...

domenica 4 ottobre 2009

La Terra dell'Auser. I. Lo scavo di Via Martiri Lunatesi e i paesaggi d'età romana nel territorio di Capannori


Sarebbe stato splendido il pomeriggio del 2 ottobre, a Capannori, con il primo tramonto autunnale e una sala piena, incredibilmente piena di persone curiose di conoscere il loro passato, di vederne i segni ripuliti dalla terra che li aveva sepolti ... se con noi fossero stati Luciana Baroni e Marcello Cosci. Si dovrebbe dire, come d'obbligo in queste circostanze, che Marcello e Luciana erano presenti con la loro testimonianza, con i frutti del loro impegno; ma in realtà non c'erano, e se allievi e congiunti, o i degnissimi successori nell'Amministrazione, ne erano fisici testimoni, con le pagine del libro, era acuto il senso della perdita. E andiamo avanti, finché si può, anche nel loro nome ...
I paesaggi fotografati dal colore del sangue che Marcello dava ai segni dei fiumi, i paesaggi indiziati dai frammenti di strade che trant'anni di fatiche diverse fanno ricucire ... il complesso di Via Martiri Lunatesti, l'enigma archeologico della Piana di Lucca, che la facile suggestione del vecchio archeologo, giocoliere di frammenti di fonti, per meravigliare il pubblico avrebbe fatto divenire la tabernula devastata dall'incursione alemanna, e il giovane archeologo prudentemente analizza in cento, splendide immagini di uno scavo che come pochi altri sfoglia un monumento sul quale Vitruvio ha poco da dire, forse solo la Circe di una miniatura tardoantica, generata da un modello medio-imperiale ...
Temi marginali, quando almeno per un frammento di tempo si è meno soli davanti al tempo che fluisce, e i segni ritrovati s'illuminano del tramonto d'autunno.

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